Aiutano tetraplegici, affetti dalla sindrome di Asperger o da patologie genetiche a vivere fisicità ed emozioni. Ma in Italia i LoveGiver non sono riconosciuti. Esperienze e testimonianze per denunciare un diritto mancato (foto di Simone Cerio)

«Dopo aver perso l’uso delle gambe ho pensato: se non posso fare neanche sesso la mia vita è veramente finita». Per Manuela Migliaccio, dottoressa veterinaria, 37 anni, divenuta paraplegica a 25 dopo essere caduta da un muretto su cui stava posando per una foto, rinunciare al sesso a causa della disabilità non era un’opzione contemplabile. «All’inizio era una tragedia, non sentivo niente, potevo leggere il giornale mentre qualcuno mi toccava. Con l’allenamento dei muscoli per fortuna è tornata la sensibilità».

Prima con un ragazzo in carrozzina conosciuto in ospedale, «complicato ma divertente, sembrava più una lezione di ingegneria che un rapporto», poi con un infermiere e un fisioterapista, con cui si sentiva più a suo agio, Migliaccio ha riacquisito consapevolezza del proprio corpo. «Da stese, del resto, siamo tutte uguali. Anzi, “grazie” alla patologia io posso fare anche la contorsionista, parto avvantaggiata». Lo dice con un tono in cui allegria e autoironia si confondono con critica e frustrazione.

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Per i pregiudizi e i tabù che condizionano i ragazzi in cui si imbatte. E per l’ignoranza di chi l’ha assistita nel percorso di riabilitazione e non ha tenuto conto di quanto fosse importante riappropriarsi della sua sessualità.

«Purtroppo in Italia, nonostante ve ne sia urgente bisogno, sia nell’educazione che nell’assistenza alle persone disabili, il sessuologo non è una professione formalmente riconosciuta», conferma Giulia Catania, psicologa specializzata in sessuologia. «Questo fa sì che ci sia un’evidente impreparazione da parte dei medici, spesso anche dei ginecologi. E quando si tratta di assistere persone con disabilità, motoria o cognitiva, l’impreparazione diventa pericolosa».

«Quando ho chiesto al mio primo chirurgo se avrei potuto avere ancora rapporti, è caduto dalla sedia dall’imbarazzo. Non aveva idea di cosa dire». A condividere la sensazione di Migliaccio è Cristina, 42 anni, due figli e paziente oncologica. È stata operata tre volte, l’ultima lo scorso luglio. Ha perso i capelli, il seno, sostituito da una protesi, poi anche i capezzoli. «All’inizio facevo sesso con la maglietta, per l’imbarazzo e per precauzione. Nessuno mi ha mai spiegato nulla, ho dovuto riscoprire da sola la mia femminilità».

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Cristina sta facendo un tirocinio per diventare Oeas, operatore all’emotività, all’affettività e alla sessualità, nella Onlus LoveGiver, fondata da Maximiliano Ulivieri per sopperire alla mancanza della figura dell’assistente sessuale per le persone con disabilità in Italia. Già regolamentata in altri Paesi, come Germania, Svizzera e Olanda, la sua istituzione è stata proposta in un disegno di legge del 2014, a cui ha partecipato lo stesso Ulivieri, poi aggiornato, alla luce dell’esperienza di LoveGiver, con l’aiuto del deputato Aldo Penna. Perché «la dimensione della sessualità delle persone con disabilità può e deve essere sostenuta attraverso un intervento di assistenza all’emotività, all’affettività e alla corporeità», è scritto nel ddl.

Gli anni passano, ma l’importanza di questo diritto, riconosciuto anche dalla Corte costituzionale, non viene recepita a sufficienza. Si susseguono governi e parlamenti, ma le sofferenze delle persone disabili persistono. Risuonano nel vuoto lasciato dalle istituzioni le loro grida, come quelle di chi subisce abusi e trova serenità solo nel contatto fisico con un’altra persona. Oppure, a causa di una malattia degenerativa, ha pochi anni di vita di fronte a sé.

«È dall’ascolto dei bisogni delle altre persone, oltre che dalla mia esperienza personale, che nasce LoveGiver», racconta Ulivieri, che soffre di una patologia genetica neuropatica che colpisce i nervi periferici, la CMT1A, dalle iniziali dei medici che l’hanno scoperta. «Sono fortunato, da padre e marito, ma so quello che si vive quando si è disabili e in cerca di affetto. La mia prima volta, con una escort, non è stata di aiuto e, va da sé, non può essere l’unica soluzione».

Per questo, insieme a Fabrizio Quattrini, fondatore e presidente dell’Istituto italiano di sessuologia scientifica di Roma, ha sviluppato la figura dell’Oeas: «Il contatto fisico non va oltre la masturbazione, che è prevista solo come accompagnamento nei casi in cui la persona non sia autonoma», spiega Anna, operatrice di LoveGiver, che precisa: «Il nostro obiettivo non è la fidelizzazione, come per le sex workers, ma l’emancipazione della persona disabile, intesa come appropriazione di tutti gli strumenti utili a vivere in maniera autonoma la propria sessualità».

Anche perché, come testimonia Davide, 22 anni, che ha la sindrome di Asperger, forma di autismo ad alto funzionamento che incide sulle capacità relazionali, «a scuola l’unica cosa che ti insegnano è come infilare il preservativo. Ho dovuto scoprire da solo il mondo del sesso, e mi sono trovato nella condizione di dover essere io a fornire a una ragazza le informazioni basilari: che esistono posizioni diverse, o che il sesso non ti lega a una persona per sempre». Anche per Sara, 21 anni e fidanzata da cinque, con dei tratti della sindrome di Asperger, «l’educazione sessuale è pressoché inesistente. Mi sono trovata in imbarazzo in certi contesti: facendo fatica a interpretare gesti e sguardi, prima una semplice gentilezza mi sembrava una dichiarazione d’amore. Solo col tempo, e grazie al mio ragazzo, ho iniziato a conoscere il mio corpo».

Ricevere il supporto di uno specialista, spiega Quattrini, diventa allora fondamentale. Perché, a prescindere dal genere e dalle disabilità, se le pulsioni sessuali vengono sopite, negate, o relegate a comportamenti infantili, come spesso avviene da parte dei genitori di ragazzi autistici, la persona disabile può mettere in atto comportamenti autolesivi, creando una disfunzionalità nella disfunzionalità.

Oltre l’associazione LoveGiver, la battaglia per avvicinare i due mondi del sesso e della disabilità viene portata avanti da molti ragazzi divenuti invalidi in seguito a un incidente. Che, sfidando ignoranza e tabù, dalla visione della persona disabile da accudire e proteggere, al sesso considerato un vezzo, un capriccio, per chi ha cose ben più importanti a cui pensare, hanno messo la propria esperienza al servizio di chi non ha avuto la stessa capacità di reazione.

«Per me si dovrebbe parlare di sesso come si parla di viaggi e pizza. Fa parte della natura umana, anche di chi sta su una sedia a rotelle», afferma convinto Danilo Ragona, imprenditore e designer, che a 21 anni ha perso l’uso delle gambe in seguito a un incidente stradale. «La cosa scioccante è che nelle unità spinali, dove viene trattata la patologia, parli con lo psicologo, ma non con il sessuologo. Esci che devi arrangiarti da solo».

Come Migliaccio, dopo un primo momento di perdita di mobilità e sensibilità delle parti intime dovuta alla lesione midollare, Ragona ha ripreso la sua vita sessuale. Si è sposato, separato, ha esperito tutto quello che farebbe ogni altro uomo. E ha deciso così di intraprendere una battaglia per la normalizzazione della vita sessuale delle persone disabili. Da rappresentare attraverso l’arte, attraverso il progetto fotografico sviluppato insieme all’amico Luca Saini, “The lovers, private acts in public spaces”, che ritrae coppie in cui lui, lei o entrambi vivono una disabilità motoria durante un rapporto intimo; o da semplificare, sfruttando la sua professione, con strumenti come “Intimate riders”, una sedia a dondolo che aiuta a raggiungere posizioni altrimenti complicate, a vivere una sessualità piena e soddisfacente. «Dispositivi che negli Stati Uniti sono comuni, qua in Italia sono visti con scetticismo per la mentalità retrograda di molte, troppe persone». Che delle proprie fantasie sessuali non parlerebbero mai, figurarsi di quelle di un disabile.

Anche per Gabriele Capponi, 30 anni, sulla sedia a rotelle dopo un tamponamento in moto, «tutti possono avere una vita sessuale, nessuno escluso. All’inizio avevo paura, mi sentivo insicuro, ma dopo un po’ di tempo diventa una cosa normale. Basta trovare il metodo e anzi, da sdraiato o da seduto sulla sedia, si possono sperimentare anche diverse posizioni».

Fondatore di Frega project, associazione che promuove iniziative ed eventi, in particolare di musica techno, sua grande passione, per persone disabili che, per l’appunto, se ne devono “fregare” della loro condizione, Capponi è stato stimolato dalla rassegnazione che vedeva nel viso degli altri pazienti ricoverati in ospedale. «Ho avuto la forza di reagire, di rendermi autonomo, ma non è sempre così: il mio obiettivo è normalizzare la disabilità, affinché il maggior numero di persone possa vivere esperienze che gli sono erroneamente precluse».

Sono tante d’altronde le domande che si pongono ragazze e ragazzi disabili. La vita per loro in alcuni casi è un conto alla rovescia molto più rapido.

I pensieri che si schiantano contro la rassegnazione, lo sconforto. Contro la potenza dell’immaginazione.

Lo riassume la scrittrice Barbara Garlaschelli, sulla sedia a rotelle dall’età di 15 anni per un tuffo finito male, nel suo libro “Non volevo morire vergine”: «Chi potrebbe mai amare questo corpo che non è capace di muoversi e non potrà mai farlo? Perché non potrò mai prendere un uomo e montargli sopra con mosse feline, o farmi sbattere sopra a un tavolo in mezzo alla farina come Jessica Lange da Jack Nicholson ne “Il postino suona sempre due volte”. E non ha nessuna importanza che, con molta probabilità, nessuna delle coppie che conosco lo abbia mai fatto né lo farà. Quello che conta è che a me non potrà mai capitare. Mai. Mai. Mai». È proprio contro questo “mai” che si sta lottando.