A chiunque arriva da irregolare in Italia vengono prese impronte e foto. Che finiscono nel database della polizia per il riconoscimento facciale

«Si metta di fronte». Clic. «Ora di lato». Youssouf non capisce. Un poliziotto mima il gesto di girarsi. Youssouf fa quello che gli viene chiesto. Clic. Anche la seconda foto è fatta. È troppo sconvolto da tre giorni trascorsi su un gommoncino, sballottato dalle onde del Mediterraneo, stretto ad altri 23 corpi alla deriva, per domandarsi come mai quegli agenti lo stiano fotografando.

 

Del resto, quattro anni fa, quando quelle foto sono state scattate a Lampedusa, non spiccicava una parola di italiano. Youssouf oggi ha 25 anni, fa l’operaio in un’azienda cartotecnica della Brianza e l’italiano l’ha imparato alla perfezione. Era partito dalla Guinea Francese nel 2016 per sfuggire alla miseria e alla guerra civile: ha attraversato Senegal, Gambia, poi di nuovo Senegal, Mali, Burkina Faso, Niger e infine la Libia, dove è stato rinchiuso in prigione, picchiato, posto ai lavori forzati, rilasciato e messo su un gommone senza scarpe e con addosso un paio di stracci per conquistarsi un futuro in Italia. Complessivamente il viaggio è durato oltre un anno. Quando la Guardia Costiera lo ha raggiunto alla deriva, ad attenderlo c’era una doccia gelata per levargli il sale dalla pelle, che lo sveglia quel tanto che basta per capire di essere in salvo. A terra, a Lampedusa, ci sono un mediatore culturale e un uomo in divisa che gli fanno un sacco di domande: nome, cognome, informazioni sui propri famigliari. «Ti chiedono se hai lasciato indietro qualcosa di importante, tipo un figlio. E poi la motivazione del viaggio. Ho risposto “la guerra”, per ottenere lo status di rifugiato politico». E le foto? «No, non me l’hanno spiegato a cosa servissero. Più tardi, ragionando, ho capito che le avevano scattate per il rilascio del primo permesso di soggiorno, che dura sei mesi». Non proprio. Le ragioni sono altre. L’Espresso, in collaborazione con Hermes Center, associazione per la promozione di diritti umani digitali, vi racconta a cosa servono quelle immagini.

 

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È fine settembre e due ufficiali di Polizia durante gli eventi pubblici della Notte Europea dei Ricercatori di Ancona e Macerata raccontano che ogni migrante approdato a Lampedusa - ma anche negli altri centri di prima accoglienza di Pozzallo, Taranto e Trapani - viene schedato con impronte digitali e foto del volto: «Le foto e le impronte finiscono nel database Afis, Automated Fingerprint Identification System, gestito dal ministero dell’Interno e usato per confermare l’identità di un sospetto durante le indagini o altre attività di polizia», raccontano gli agenti, che continuano spiegando come le immagini siano poi associate ad altre informazioni anagrafiche del migrante - nome, cognome, età, provenienza, motivi del segnalamento - e a segni particolari, un tatuaggio ad esempio, fotografato e caricato nel database.

 

Tutte queste informazioni sono poi utilizzate dalla Polizia Scientifica durante le indagini di delitti di qualsiasi tipo, dal furto all’omicidio, attraverso il potente sistema di riconoscimento facciale Sari Enterprise, in grado di confrontare i volti ripresi da telecamere a circuito chiuso con quelli presenti in Afis.

 

Se il sistema Sari trova un volto che corrisponde a un’immagine schedata nell’archivio digitale, allora gli agenti possono risalire all’indiziato: quindi, chi è incluso in Afis è considerato un potenziale sospetto, fino a prova contraria.

 

Ma quante sono le persone schedate? Il ministero dell’Interno spiega che a inizio 2020 «in Afis ci sono 9.882.490 individui fotosegnalati, di cui 2.090.064 italiani». I restanti 7,8 milioni sono stranieri. Questo perché nell’archivio finisce chi è indagato, chi viene ritenuto pericoloso o sospetto dalla Polizia, chi si rifiuta di dichiarare le proprie generalità, ma soprattutto chi richiede o rinnova il permesso di soggiorno e, chiaramente, chi arriva qui illegalmente, come nel caso di Youssouf, nonostante lui sia un richiedente asilo.

 

Lo conferma un recente arresto avvenuto a Milano, dove un uomo è stato riconosciuto dalla polizia grazie al sistema di riconoscimento facciale Sari, che avrebbe comparato l’immagine del profilo WhatsApp dell’indagato con la foto raccolta per la richiesta di asilo e inclusa in Afis. Così, i richiedenti asilo, che dovrebbero ricevere particolare protezione e assistenza legale, finiscono nello stesso calderone dei peggiori criminali del Paese. La presenza di rifugiati politici nell’archivio è confermata a L’Espresso dalla Polizia di Stato, senza tuttavia fornire cifre esatte perché: «potrebbe ingenerare un pregiudizio concreto alla tutela dell’interesse pubblico», dicono. Anche se non è chiaro in quale misura un’azione di trasparenza possa arrecare danno ai cittadini.

 

Da un punto di vista normativo, la Polizia non fa altro che rispettare la legge: i migranti sbarcati in Italia sono a tutti gli effetti criminali. Lo dice la Bossi-Fini che, avendo eliminato la possibilità di entrare in Italia alla ricerca di lavoro, se non vincendo alla roulette dei circa 40mila posti annui messi a disposizione dal decreto flussi (per lo più riservati agli stagionali dell’agricoltura), impone a tutti gli altri - rifugiati politici compresi - di conquistarsi il diritto a una vita dignitosa entrando illegalmente nel Paese.

 

È poi l’Europa a imporre all’Italia di identificare gli stranieri irregolari all’interno degli hotspot. E secondo quanto previsto dal regolamento Eurodac, il database europeo delle impronte digitali che fa capo al dipartimento per le politiche europee, ci sarebbe l’obbligo di informare il migrante «sull’uso futuro dei dati personali e biometrici raccolti e quindi sull’identità del responsabile del trattamento, sullo scopo per cui i suoi dati saranno trattati all’interno del sistema Eurodac, sui destinatari dei dati, sul diritto di accesso o di modifica ai dati raccolti in merito alla sua persona e sull’obbligatorietà di tale rilevamento», si legge nel regolamento. Nella pratica, come emerge dal report “Tecnologie per il controllo delle frontiere in Italia” del Centro Hermes, il processo di identificazione dei migranti risulta più complesso e per nulla trasparente.

 

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All’hotspot di Lampedusa, nella fase di pre-identificazione, la questura di Agrigento compila un “foglio notizie”, cioè un modulo contenente l’identità della persona e le motivazioni per cui è giunta in Italia. Il modello non è tradotto in tutte le sue parti e non sempre il mediatore culturale riesce a colmare queste lacune, come Youssef ha raccontato a L’Espresso. Sempre a Lampedusa è invece la polizia scientifica di Palermo a effettuare le procedure di fotosegnalamento: vengono usati tre diversi moduli per raccogliere le impronte delle dita, del palmo di ogni mano, i dettagli sul luogo e motivo del segnalamento, i dati anagrafici, i connotati fisici, i segni distintivi e infine la presenza nel database Eurodac. Queste azioni vengono svolte all’interno di un container dell’hotspot dove non può accedere alcun organo indipendente, neppure gli operatori delle Nazioni Unite: «Non siamo presenti durante il riconoscimento, sappiamo però che sono presenti i mediatori culturali della Polizia di Stato», conferma Carlotta Sami, portavoce Unhcr per l’Italia. Così, in questa fase delicata, il rispetto delle procedure, così come la possibilità di rettifica dei dati o l’espressione di consenso informato da parte dei migranti, sono lasciati nelle mani della professionalità degli operatori della scientifica e di Frontex.

 

Inoltre, la Scientifica di Palermo ha dichiarato che è la Questura di Agrigento a occuparsi di comunicare, al momento dell’intervista con il migrante, una nota informativa redatta in più lingue con i riferimenti sui diritti dell’interessato previsti dal regolamento Eurodac. Copia dell’informativa, ottenuta da L’Espresso, mostra come vengano rilasciate informazioni generali sull’inserimento all’interno del database Eurodac, ma non vi sono dettagli sull’inclusione nel database Afis.

 

Secondo la Polizia di Stato, a fornire informazioni a tal proposito sarebbe la direzione centrale dell’immigrazione e la Polizia delle Frontiere, ma i contorni sono piuttosto sfumati. «Si sa pochissimo della fase di riconoscimento», conferma Bianca Benvenuti di Medici senza Frontiere, che ha trascorso parecchi mesi all’hotspot di Lampedusa, e continua: «Perché non abbiamo accesso alle aree riservate alle procedure di segnalamento. Quello che osserviamo è la netta priorità dell’identificazione rispetto all’assistenza ai migranti. Prima di poter avere qualsiasi assistenza devono essere riconosciuti e, specialmente quando l’hotspot è sovraffollato, le persone sono lasciate ad attendere il proprio turno per l’identificazione anche parecchi giorni, sotto al sole, senza alcun aiuto, in un luogo fatiscente, con un solo bagno. E se chi arriva ha già ricevuto un decreto di espulsione, come nel caso di molti migranti provenienti dalla Tunisia, allora la fase di riconoscimento si allunga moltissimo, fino a un mese. Solo successivamente possono ricevere sostegno», racconta Benvenuti.

 

La politica sottoscrive l’uso di queste tecnologie sui migranti per rispondere alla percezione di insicurezza dei cittadini, ma senza un adeguato livello di dibattito sul tema e con il rischio di estendere ad libitum la strategia del controllo di massa. Già succede negli Stati Uniti, dove gli assalitori di Capitol Hill sono stati identificati dalla polizia sfruttando diversi database per il riconoscimento facciale. Il report del Centro Hermes fa emergere come, tra il 2014 e il 2020, lo Stato Italiano sia stato finanziato proprio dall’Unione Europea con una cifra di circa mezzo miliardo di euro per l’acquisto e il potenziamento di tecnologie di riconoscimento facciale e per accelerare il processo di identificazione e controllo alle frontiere come su territorio nazionale.

 

Di più, nel progetto Telefi, Towards the european level exchange of facial images, cioè “Verso lo scambio europeo di immagini facciali”, c’è la conferma che, in alcuni casi specifici, la polizia può accedere a database civili, che contengono le foto delle carte d’identità e dei passaporti, per condurre le proprie indagini. «Non credo che queste tecnologie siano efficaci e legittime», argomenta Filippo Sensi, deputato Pd, che ha presentato una moratoria per il riconoscimento facciale ad aprile di quest’anno, e continua: «Lo scenario di una possibile collaborazione internazionale tra database, non solo è possibile, ma attuale. È giusto dare alle forze dell’ordine gli strumenti utili per fare le indagini e colpire i criminali. Ma strumenti inefficaci, che violano un principio minimo di libertà personale, non sono la direzione giusta». Sensi promette battaglia a suon di interrogazioni parlamentari, ma nel frattempo le sperimentazioni sul fotosegnalamento dei migranti continuano.