Il racconto
Nell’Afghanistan estremo essere mancini è una colpa
Racconto di una giornata di viaggio tra bambini bombardati e natura mozzafiato
Provincia di Sar-e-Pul. Distretto di Sayad – Sono nato mancino e ne vado orgoglioso. Ma non è ovunque una cosa positiva. In Afghanistan, ma non solo, è la mano considerata “sporca”, per ovvi motivi. Ho un problema, visto che si mangia quasi sempre con le mani. Nessuno mi ha mai detto nulla fino a questa mattina, quando un uomo, in un ristorante di Sar-e-Pul, piccola cittadina nel nulla, mi continua a fissare con sguardo insistente. Mi chiedo cosa voglia da me. Poi chiede: «Mangia con la sinistra?», e Obaid, la guida, risponde: «Si è mancino». Mi sono messo a ridere. «Ecco perché siamo arretrati» - esclama Obaid - «Perché invece di pensare ad evolversi e studiare, qui pensano ancora a chi mangia con la mano sbagliata».
Questo è stato l’inizio divertente di una giornata infinita, che mi ha portato fino al distretto di Sayad (provincia di Sar-e-Pul, nel nord del paese): un luogo paradisiaco ma dove ancora non è arrivata la connessione del telefono. Oltre a me, Obaid e Jabbar, l’autista, ci accompagnano un talebano che non ha idea di dove siamo e un afghano che mi parla in turco. Dopo aver vissuto 5 anni a Istanbul, illegalmente come la maggior parte degli afghani che fuggono, è stato deportato ed è tornato a Sayad, il suo distretto natale. Conosce tutte le strade del posto, un vero labirinto di viuzze sterrate, guadi e prati che serpeggiano fra colline brulle, verdastre, insieme ad asini pastori e pecore. Alcuni contadini arano campi sulle pareti delle montagne, oppure portano le provviste per l’inverno in grotte scavate nella roccia. E Faiz, il rinnegato turcomanno, conosce tutto a memoria. Meno male. La macchina di Jabbar, a 10 km/h, sale e scende dalle colline. Sembra un deserto di dune rocciose. È bellissimo e non per nulla è soprannominato “Registan”.
Dobbiamo raggiungere il villaggio di Ashdabala, a 2 ore e mezzo di sterrato in mezzo alla polvere. Passiamo attraverso villaggi rimasti davvero al medioevo. Acqua dal pozzo, asinelli, qualche motocicletta e la cosa più bella, il cibo fresco. Mi piace andare nei villaggi afghani per mangiare perché si sente la differenza. Non tutti sono d’accordo perché molti avrebbero la dissenteria. Ma ci sono abituato. Le condizioni, in effetti, sono molto spartane. La gente è poverissima. Soprattutto nelle provincie come Sar-e-Pul, dimenticata da tutti. Tranne che dalla Nato, che ha mietuto vittime anche qui. Solo 6 mesi fa una casa civile dove abitano 3 famiglie è stata bombardata senza un vero motivo. Ma non ha fatto notizia. Arrivo sulla scena a bordo di una motocicletta di uno dei sopravvissuti per scattare qualche foto, ma scivolo in continuazione e non riesco a stabilizzare l’obiettivo. «Engineer Sahib» mi chiama, signor ingegnere, «7 sono morti, 8 feriti». Sono sordo, specialmente con il vento quindi, ogni volta: «Che hai detto?». Obaid dice che tutti ridevano per il fatto che fossi saltato sulla moto. Aver visto uno straniero era già di per sé un evento da queste parti. Se in più salta sul sellino di una moto diventa subito l’argomento dell’anno. Forte.
Nel cortile della casa bombardata, si riuniscono i familiari e i vicini. Le donne filano in casa, anche se poi posso intervistarne alcune. Fra loro Khalida, 7 anni. Ha perso il suo piedino: «Vorrei tanto averne uno nuovo per giocare con le mie amiche», ammette, mettendosi la mano di fronte alla bocca in segno di timidezza. Mentre parla, i bambini del villaggio si affacciano per spiare la conversazione, arrampicandosi sui muretti in pietra. Khalida ha la gamba ricoperta da un panno. Una sciarpa che le permette di poggiare l’arto monco per terra e evitare di ricordarsi quanto successo. Per mostrarmi la cicatrice, se la toglie. Mi tocca talmente tanto che vorrei poter trovarle la protesi e permetterle di vivere un futuro meno duro. Spero di poterla aiutare.
Al ritorno siamo stanchi morti. Pieni di polvere. In cima a una collina scorgiamo un panorama mozzafiato. Sembrano dune con in fondo le alpi innevate. Al calar del sole avvistiamo nuovamente l’asfalto e assistiamo all’ultima scena che fa riflettere: In un checkpoint, è un bambino ad avere fucile in mano. Avrà avuto sì e no 13 anni. «Multi tasking», conclude Obaid. A quanto pare non serve solo a combattere.