Scuola
Noi ragazzi costretti a raccogliere i cocci di un orizzonte spezzato
A 100 giorni dalla maturità noi diciottenni chiusi in casa proviamo a gettare i i semi per dare un senso al presente che ci è concesso
Se apro la finestra sento il rumore di un pallone che rimbalza sull’acciottolato, nel silenzio del giardino. Presto sarà di nuovo primavera. Mio fratello gioca da solo, con le cuffie nelle orecchie. Ha dodici anni: ha iniziato a frequentare la scuola media a distanza, conosce a malapena i suoi compagni e le sue nuove insegnanti. Fa fatica a studiare e a concentrarsi, come molti ragazzini della sua età.
Le scuole sono di nuovo chiuse, nove alunni su dieci sono a casa. Secondo Save the children, quest’anno gli studenti a Milano sono andati in classe 112 giorni contro i 48 di quelli che vivono a Bari: qui didattica a distanza anche in giallo.
Siamo tutti figli, da nord a sud, dai più piccoli agli universitari, di un Paese che non riesce più a declinare verbi al futuro. Dimenticati da una classe politica che non ci rappresenta, che ama definirsi progressista ma non riesce a pensarlo, il progresso, e che preferisce i muri all’incontro, al dialogo formativo. In diverse città italiane sono stati emanati provvedimenti ad hoc per vietare agli under 18 di circolare dopo un certo orario: è un’immagine tragica, emblematica di un’enorme sconfitta educativa.
La copertina del numero dell’Espresso in edicola il 7 marzo riportava una parola, «insicurezza»: il mare magnum profondo in cui siamo stati nuovamente scaraventati, tutti. Impazza la bufera: perché non eravamo pronti? Avremmo dovuto prevederla. Chi ha sbagliato? Perché continuiamo a navigare a vista?
Mancano meno di cento giorni agli esami di maturità. Dovrebbe essere il periodo dei sogni, questo, delle notti ancora nostre passate a discutere di cosa sarà domani, ma ci troviamo costretti a raccogliere i cocci di un orizzonte rotto. Secondo i dati Ipsos, per il 46 per cento degli adolescenti il 2020 è stato un «anno sprecato».
Proveremo a resistere: qualcosa sapremo inventarci. Nell’ultima settimana abbiamo organizzato delle attività di cogestione in remoto su Teams: non è stato facile ma ce l’abbiamo fatta. Ho tenuto un corso sugli anni ’70-’80, anni di militanza, attivismo, piazze gremite di giovani.
Gettiamo semi, proviamo a restare uniti, a non lasciare nessuno da solo, a dare un senso al presente che ci è concesso. E a pensare il mondo che verrà.
Nel discorso di fine anno del 1983, Sandro Pertini raccontò di aver ricevuto, dall’inizio della sua presidenza, circa seicento ragazzi al giorno: «Mi faccio tempestare di domande (…) io li amo immensamente questi giovani che si affacciano adesso alla vita». Concludeva così: «Finché vita sarà in me sarò al vostro fianco, nelle vostre lotte».
Durante il primo lockdown ho letto un bel libro di Valeria Parrella, Almarina, la storia dell’incontro fra una professoressa del carcere di Nisida, Elisabetta Maiorano, e una giovane studentessa. Sul finire del romanzo, Elisabetta guarda Almarina e dice «Lì ho capito che c’era tutto il futuro da fare».
Ecco, forse dovremmo ripartire da qui, dal futuro che c’è da fare, nascosto nei nostri sguardi impauriti. Interrogarci a vicenda, guardandoci negli occhi. La primavera arriverà, dobbiamo esser pronti. Aspettiamo senza avere paura, domani.
*Giorgia Loschiavo ha 18 anni, ed è una studentessa del liceo Gaetano Salvemini di Bari
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