«Caro signore, ha quindici giorni per restituire decine di migliaia di euro di stipendio regolarmente versato e al quale le avevamo detto di aver diritto». Recita più o meno così la lettera spedita lo scorso marzo dall’Agenzia Tutela Salute (Ats) di Lodi a una trentina di persone tra dipendenti ed ex dipendenti. La ragione di una richiesta così insolita è semplice e allo stesso tempo paradossale. Ha a che fare con dolorose vicende personali e con i bizantinismi della burocrazia.
La faccenda è questa: i dipendenti che hanno ricevuto queste missive sono lavoratori che hanno avuto, tra il 2002 e il 2012, gravi malattie, per lo più tumori, che li hanno costretti ad assentarsi dal lavoro per giorni, settimane, mesi. All’epoca delle cure l’Azienda Socio Sanitaria Territoriale (Asst) aveva detto loro che, per non subire nessuna decurtazione dello stipendio, era sufficiente portare il certificato del medico di famiglia che attestasse la loro malattia e la necessità di ricevere cure salvavita, per lo più chemioterapie. Detto fatto, i dipendenti-pazienti, convinti di essere garantiti e fiduciosi di quel che i dirigenti avevano detto loro, si sono dedicati alle loro cure, prendendo periodi di riposo più o meno lunghi, e convinti di aver diritto comunque al 100 per cento del loro stipendio. Convinzione confermata tra l’altro dal fatto che, nonostante i permessi e le assenze, ogni mese sul loro conto veniva comunque versato loro il consueto assegno senza decurtazioni o trattenute.
Sembrava tutto a posto. Anzi, per quasi dieci anni lo è stato. Poi, pochi giorni prima della scorsa Pasqua, l’Asst ha inviato le lettere nelle quali diceva che gli stipendi corrisposti, per intero, a quell’epoca non erano dovuti. Anzi, andavano restituiti in tutto o in parte, perché la documentazione presentata risultava incompleta e, dunque, non valida. A mancare, nello specifico erano i certificati dei medici ospedalieri e degli specialisti che, materialmente, avevano somministrato le terapie. Il che significava che quel che era stato detto ai dipendenti in malattia, ossia che fosse sufficiente un certificato del medico curante per dimostrare che fosse in corso una patologia grave che necessitava di cure salvavita, non era vero.
A dirlo, sia chiaro, non è tanto l’attuale direzione di Asst che ha ereditato la situazione e anzi, probabilmente avrebbe fatto volentieri a meno, quanto la Corte dei Conti, che ha rilevato l’errore: «Siamo stati messi a conoscenza della situazione il 15 marzo 2021 e di non abbiamo potuto fare altro che procedere alla richiesta di recupero delle somme poiché oramai si trattava di atti dovuti non ulteriormente procrastinabili. La vicenda si riferisce a fatti che risalgono a diversi anni addietro, e che erano stati già oggetto di segnalazione alla Corte dei Conti», si legge nella missiva.
Una notizia (e una lettera) che ha gettato nello sconforto, o addirittura nel panico, decine di persone (inclusi dipendenti ormai in pensione o, addirittura, eredi di dipendenti ormai deceduti) che da un lato, sono convinti di essere nel giusto e di non dovere niente a nessuno perché hanno seguito alla lettera le procedure che erano state loro indicate, e dall’altro, anche volendo, non saprebbero proprio dove recuperare i soldi richiesti, perché le cifre non sono da poco: cambiano di caso in caso, vanno da seimila a 74 mila euro.
Così ora ci si trova, oltre che davanti a un problema umano assai grave, anche a un rompicapo giuridico di cui difficilmente si riesce a trovare il bandolo. «Il problema non sta tanto nella completezza o meno della documentazione presentata, quanto nel modus operandi applicato da Ats che, di fatto, sta contraddicendo se stessa», spiega Eligio Marazzoli, avvocato di Lodi che segue una delle destinatarie dell’ingiunzione, cui sono stati chiesti indietro 18 mila euro. «La mia assistita e altri come lei si sono attenuti a quel che era stato detto detto loro dal datore di lavoro e dunque hanno presentato quanto richiesto e quanto era stato detto loro fosse sufficiente e necessario: nulla di più, nulla di meno».
Tra i destinatari delle lettere c’è anche Marco Losi, vedovo di un’infermiera dell’ospedale di Lodi morta nel 2014, dopo un lunga malattia. In base alla lettera recapitata a Losi da Ats ora spetterebbe a lui restituire i 22 mila euro più interessi ricevuti, indebitamente, dalla moglie nei periodi in cui si stava curando: «Quando ho letto questa cosa non ci potevo credere, mi sembrava assurdo. I miei figli, quando gliel’ho detto, pensavano scherzassi. Non mi faccio capace: mia moglie è stata malissimo, in ospedale la vedevano, lo sapevano», racconta Losi: «Si è ammalata di tumore al seno nel 2010, si è operata, ha fatto la chemio e ha comunque lavorato fino al 2012. Poi, quando le cose sono peggiorate e sono state trovate varie metastasi, la malattia le ha reso impossibile tornare a lavorare. Gli ultimi tempi sono stati tremendi. All’epoca, dall’ospedale ci dissero di stare tranquilli, che era tutto a posto e che la documentazione presentata per avere, comunque, il 100 per cento dello stipendio era corretta, che non mancava niente. Infatti, anche nei mesi in cui mia moglie è stata a casa, riceveva regolarmente la sua retribuzione, senza nessun problema», aggiunge l’uomo, scosso non si sa se più dalla ferita del lutto riaperta all’improvviso o da una richiesta di soldi piovutagli tra capo e collo.
«Se avessi saputo o immaginato, quando mia moglie era malata, una cosa del genere, mi sarei mosso diversamente. Non solo avrei prodotto tutti i certificati del caso, ma avrei chiesto la pensione di invalidità, visto che mia moglie, negli ultimi tempi, era invalida al 100 per cento. Non ho fatto niente di diverso da quello che dagli uffici dell’ospedale mi avevano detto di fare. Mi sono fidato. Ma si vede che ho fatto male. Ora, anche volendo, non saprei proprio come recuperarli questi soldi. Dopo che mia moglie è morta, ho cresciuto due figli da solo, con il mio stipendio da infermiere dell’ospedale di Piacenza. Se qualcuno pensa che in questi anni sia riuscito a mettere da parte 20 mila euro, si sbaglia. Li ho spesi per mandare i miei figli all’università».
Un vicolo cieco dal quale la dirigenza dell’ospedale di Lodi, lo stesso dei medici e degli infermieri eroi della lotta contro il Covid sta cercando una via di uscita. «A quel che risulta, negli anni dal 2002 al 2016, circa 40 dipendenti hanno beneficiato, sulla base di indicazioni fornite loro dall’Ufficio Personale, del congedo per terapia salvavita a stipendio pieno», dicono da Ats. In realtà secondo la normativa in vigore all’epoca dei fatti, i giorni a stipendio pieno avrebbero dovuto essere solo quelli di ricovero e destinati a specifici trattamenti e non gli eventuali periodi di assenza dovuti ai postumi temporanei o permanenti delle specifiche patologie, che invece rientrano nel normale regime di malattia. «Abbiamo avviato un supplemento di istruttoria per approfondire i singoli casi e valutare tutti gli ulteriori elementi utili a riesaminare e mitigare gli effetti della prima richiesta», dicono da Ats: «Il nostro impegno è quello di trovare un modo per minimizzare o addirittura annullare gli effetti negativi per colleghi che hanno già dovuto sopportare il peso di malattie gravi. Proseguiremo gli incontri fiduciosi che questa vicenda si risolva al più presto».
Una delle ipotesi sul tavolo è quella di una riduzione degli importi e di una loro rateizzazione anche se c’è chi, come Gianfranco Bignamini del sindacato Fisi, dice che non basta: «Nei prossimi giorni accompagnerò alcuni dei dipendenti cui sono stati chiesti indietro, in tutto o in parte, gli stipendi, ad alcuni incontri con la dirigenza», dice il sindacalista: «So che dagli uffici stanno cercando di sistemare le cose. Ma quel che vogliamo noi è uno stralcio totale, non una rateizzazione. Non sono stati i lavoratori a sbagliare e, dunque, non devono essere loro a pagare».