Dad – Diario A Distanza
La nostra maturità in questo “anno senza”
«Ci prepariamo a questa ultima prova orale dopo un anno di assenza, di corpi, banchi, sedie, baci, corridoi, gite, abbracci: mentre la politica metteva la scuola (e l’università) all’ultimo posto della lista delle priorità, noi abbiamo continuato a camminare»
Non voglio sapere che giorno è: il tempo corre e io non so fermarlo. Manca poco alla maturità, di questo sono certa: lo dicono i libri aperti davanti ai miei occhi, spalmati sulla scrivania fra le bozze dell’elaborato che ho preparato per la prova orale. Il ruolo della scienza nella costruzione della pace, con uno sguardo al Cern di Ginevra. E Daniele Del Giudice, autore di un romanzo straordinario ambientato proprio nei laboratori scientifici di Ginevra, l’atlante che Italo Calvino avrebbe sicuramente amato - un romanzo portatore di una nuova poetica dello sguardo (c’est le regard qui fait le monde) e del rispetto per le cose. Un testo che racconta una sfida meravigliosa: sforzarsi di vedere in un tempo in cui le cose stanno scomparendo, non troppo diverso da questo nostro presente (passato, speriamo) impazzito fatto di non luoghi virtuali. È un esperimento che forse un po’ assomiglia al modo in cui abbiamo fatto scuola in questo nostro ultimo anno, impegnandoci ad esserci in assenza di corpi, banchi, sedie, baci, corridoi, gite, abbracci, panini mangiati di nascosto mentre la prof disperata spiega Seneca.
Di quest’anno difficile costruito con molti senza non voglio dimenticare nulla, perché tutto è stato prezioso, persino il buio (è dal buio che dobbiamo ripartire per ricostruire cosa si è spezzato, cosa non ha funzionato). Mentre la politica metteva la scuola (e l’università) all’ultimo posto della lista delle priorità, noi abbiamo continuato a camminare: si tratta di vivere il tempo che ci è dato vivere con tutte le sue difficoltà, ha scritto Aldo Moro.
Porto via con me una lezione importante, forse la più preziosa di tutte: siamo Scuola quando e dove siamo insieme - e insieme costruiamo, ragioniamo, pensiamo il futuro, accudendo i nostri sogni e coltivando la speranza; siamo Scuola quando capiamo che responsabilità è prendersi cura gli uni degli altri, e lottare, tenaci, per cambiare il presente (aveva ragione la mia professoressa che mentre spiegava gli anni ’70 ha detto: la storia di uno stato è la storia dei cittadini e l’unico modo per cambiarla è il loro impegno).
E poi porto via anche con me il senso di smarrimento, la paura, la rabbia e la tristezza. La difficoltà di provare a progettare il domani quando pensi che ti sia stato tolto tutto e non esiste un colpevole, l’affetto inestimabile nascosto nei «Ti capisco», «Mi sento proprio così», il tentativo di esercitare la prossimità nella lontananza. I quattro ultimi-primi giorni di scuola che ci sono stati concessi, tutti i momenti nostri in cui ci siamo riconosciuti dietro le mascherine, col nostro bagaglio di speranze e timori.
Ma finirà, e noi andremo. Guarderemo questo groviglio di emozioni con un po’ di tenerezza e lo metteremo in tasca. Piangeremo un po’, perché salutare i ricordi fa questo effetto. E poi lì, sulla soglia, ci guarderemo negli occhi, compagni per l’ultima volta e per sempre, col mondo fra le dita. C’è una poesia di Apollinaire che parla della paura di volare, del momento prima della partenza in cui il nodo in gola appesantisce il corpo. È l’attimo prima di crescere, credo: «“Avvicinatevi all’orlo”, disse. / “Non possiamo, abbiamo paura.” / “Avvicinatevi all’orlo.” / “Non possiamo, cadremo giù.” / “Avvicinatevi all’orlo.” / Si avvicinarono… lui li spinse. E volarono». Non voglio dimenticare nemmeno questa paura qui, il momento in cui siamo diventati grandi per davvero. Colleghi, amici, compagni, insegnanti (persino e soprattutto): adesso tocca a noi.
Giorgia Loschiavo ha 18 anni ed è una studentessa del liceo Gaetano Salvemini di Bari
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