Gioca spesso “di prima”, preciso e sicuro come chi sa finalizzare un obiettivo. Quando è partito dal piccolo villaggio di Bakoteh voleva arrivare a gareggiare ai massimi livelli, con quei campioni visti in tv. Ci è riuscito in pochi anni, ma i passaggi che ha dovuto attraversare sono stati difficili e dolorosi. Ebrima Darboe, classe 2001, originario del Gambia, centrocampista, è il calciatore rivelazione dell’A.S. Roma. Ha fatto il suo esordio da titolare prima in serie A, poi in Europa League, incassando i complimenti dei compagni di squadra e dei campioni del Manchester United, per personalità di gioco, resistenza, tenacia. Come racconta lui stesso, la sua è la storia di un viaggio lungo e duro, di un sogno realizzato anche attraverso una serie di fortunate eccezioni.
Che fosse un talento era chiaro fin dall’inizio, un amico fraterno glielo aveva detto: «Prova ad andare in Europa, farai strada». Ma partire non è mai un’opzione semplice per chi vive nei tanti sud del mondo. Paese poverissimo, al 173esimo posto su 188 nella graduatoria dell’indice di sviluppo, il Gambia è anche nelle ultime posizioni dell’elenco del Passaport Index, che misura il peso della libertà di movimento dei cittadini di ogni Stato. E così, quando la famiglia ha messo insieme i soldi, Ebrima ha provato a chiedere un visto, ma i documenti non sono mai arrivati. La scelta obbligata è stata quella più insicura di un viaggio via mare. Partito da solo a 14 anni, si è imbarcato nel 2017 su un gommone, dopo essere passato per l’inferno dei centri in Libia. Salvato dalla Guardia Costiera è stato accolto prima a Catania, poi in uno Sprar (Sistema per richiedenti asilo, oggi Sai) per minori non accompagnati a Rieti, gestito da Arci.
Nella cittadina dell’alto Lazio il suo progetto di vita ha iniziato a prendere forma. Ibra, come lo chiamano i compagni, ha chiesto e ottenuto di giocare nella squadra locale, lo Young Rieti, che da anni ha un programma di integrazione legato all’accoglienza dei rifugiati. «Era un fenomeno, ce ne siamo accorti al primo allenamento: per noi che facciamo il campionato provinciale era una vera chicca», racconta l’allenatore della squadra, Francesco Spognardi: «Come tutti quelli bravi, voleva fare sempre tutto da solo, faceva fatica a passare la palla ai compagni. Dovevo insegnargli il gioco di squadra, a coinvolgere anche gli altri, ma avevo sempre timore che perdesse l’inventiva».
Ed è proprio durante un allenamento che al ragazzo si presenta l’occasione tanto attesa. Miriam Peruzzi, una talent scout di giovani promesse, è sugli spalti dello stadio Manlio Scopigno come giurata a un torneo: «Mi disse: “Mi vieni a vedere? Sono bravo”. Ma io stavo lavorando e risposi di no. Il giorno dopo tornò con altri due amici, mi chiese ancora di dargli una possibilità e così andai a vederlo. Era magro, molto esile, per le caratteristiche fisiche non lo avrei mai scelto, ma mi colpì l’intelligenza delle sue giocate. Sul corpo e la tecnica si può lavorare, l’arguzia mentale è qualcosa di innato, un parametro non costruibile. Lui ce l’aveva, mi bastò per decidere». Peruzzi decide di contattare la Roma, il ragazzo è bravo, si può provare a tesserarlo.
Ma sarà un percorso tutto in salita: Darboe deve scontrarsi innanzitutto con le nuove norme del decreto sicurezza, voluto dall’ex ministro dell’Interno Matteo Salvini (oggi parzialmente superate dal dl Immigrazione). La protezione umanitaria, ottenuta una volta diventato maggiorenne, viene abolita e il ragazzo rischia di andare a ingrossare le fila degli irregolari o peggio di essere rimpatriato. Ma la squadra non gli volta le spalle, anzi decide di investire su di lui: gli fa un contratto per permettergli di convertire la protezione in un permesso di soggiorno per lavoro.
Superato il primo ostacolo, ne compare subito un secondo: le regole ferree della Figc per il tesseramento degli extracomunitari. «C’è stato un periodo in cui sembrava che non si potesse andare avanti. Noi, come Ebrima, avevamo perso le speranze: quando abbiamo sentito che il tesseramento e il contratto con la Roma diventavano possibili, abbiamo provato una gioia immensa: non era un risultato importante solo per lui ma anche per tanti altri ragazzi che sono nella sua situazione», sottolinea Davide Ballone, educatore dell’Arci di Rieti: «Abbiamo purtroppo tanti altri casi in cui la burocrazia rema contro, anche nel caso di ragazzi che nel nostro Paese hanno fatto un percorso di integrazione».
Una volta tesserato, Darboe viene inserito nella Primavera della Roma, dove fa un percorso di crescita che lo porta a giocare titolare prima contro la Sampdoria e poi contro lo United. «Gioca semplice, non avere paura, non forzare le tue azioni», sono i consigli che l’allenatore giallorosso gli dà prima di entrare in campo. Anche se la partita più importante lui sa di averla già vinta.
Nei giorni in cui le migrazioni tornano nell’agenda pubblica e politica, l’esordio in serie A di Ebrima Darboe restituisce un volto e una storia alla contabilità propagandistica sull’aumento degli sbarchi e il pericolo invasione. «Colpisce la forza di questo ragazzo, arrivato da minore non accompagnato facendo un viaggio che lui stesso definisce con pudore “difficile” e non “orribile”, come probabilmente è stato. Colpisce che sia riuscito a riprendersi, a ripartire e a realizzare il suo sogno», sottolinea la portavoce in Italia dell’Unhcr, Carlotta Sami. «Darboe ha un talento eccezionale, ci sono anche tanti altri rifugiati e minori non accompagnati che hanno trovato nello sport un canale di integrazione. E ci sono squadre di calcio e team sportivi di alto livello molto sensibili e consapevoli. L’esempio della Roma è importante».
Da anni l’Unhcr chiede che la Lega calcio agevoli il tesseramento dei rifugiati, già presenti sul nostro territorio. A mancare, però, sono anche canali regolari di ingresso attraverso lo sport. Potrebbero essere attivati sul modello di quanto già accade con i corridoi universitari per gli studenti rifugiati che vogliono venire a studiare in Europa. «Serve una via sicura di accesso per tutti quei ragazzi che altrimenti non hanno prospettive: non è un caso che siano i più giovani a partire attraverso la via pericolosa del Mediterraneo centrale», conclude Sami.
Secondo i dati dell’Alto Commissariato Onu per i rifugiati, dal 2014 a oggi sono circa 16mila le persone morte o disperse in mare nel tentativo di arrivare in Europa. Tragedie che nei primi mesi del 2021 sono più che triplicate rispetto all’anno precedente (circa 700 vittime a fronte delle 978 del 2020). Nel giorno in cui Darboe ha fatto il suo esordio in serie A, il 2 maggio scorso, 12 persone hanno perso la vita davanti alle coste della Libia, dieci giorni prima (il 23 aprile) la stessa sorte era toccata a 130 migranti in fuga. «Non tutti partono con un barcone, ci sono anche ragazzi che riescono a ottenere un visto grazie alla chiamata di un club sportivo. Ma bisogna incontrare le persone giuste», aggiunge Peruzzi, una delle poche donne ad andare nei Paesi africani a fare scouting di calciatori.
«Sarebbe importante fare investimenti nei Paesi di origine, creare delle scuole calcio in loco per contrastare l’immigrazione irregolare e consentire viaggi sicuri. Pochi club investono in Africa, qualche squadra francese ha iniziato ad aprire delle accademie di calcio, in particolare nei Paesi ex colonie, con cui c’è un legame storico. Altre nazioni, come l’Italia, difficilmente fanno questa scelta, perché possono tesserare un numero limitato di stranieri extra Ue. E quando ci riescono, lo fanno dopo un percorso troppo lungo e complesso».
Quando non arriva dal mare, il pericolo può nascondersi dietro incontri sbagliati. Le cronache hanno raccontato in questi anni diversi casi della cosiddetta “tratta dei baby calciatori”: ragazzi fatti arrivare in Europa con la chimera di diventare famosi e poi inseriti in giri poco puliti o tesserati con documenti falsi per alimentare gli affari milionari del calcio scommesse. Spesso sono proprio i casi di successo di ragazzi come Darboe ad essere usati per convincere i più giovani ad affidarsi a procuratori sportivi senza scrupoli.
Inseguendo la promessa di un ingaggio era arrivato a Roma, minorenne dal Camerun, Joseph Bouasse Ombiogno, per tutti Perfection. Era stato convinto a partire quando aveva 16 anni, ma in Italia era stato abbandonato alla stazione Termini. A salvarlo fu l’incontro con i Liberi Nantes, la prima squadra in Italia formata da rifugiati e richiedenti asilo. Con loro il camerunense riprese ad allenarsi e arrivò anche lui al provino con l’A.S. Roma, che lo inserì nelle giovanili per poi tesserarlo da maggiorenne. Dopo un periodo nella squadra romana, era stato a Vicenza e poi in Romania. Un arresto cardiaco ha spento le sue speranze lo scorso anno, a soli 21 anni.
Al campo XXV aprile, nel cuore del quartiere romano di Pietralata, dal 2007 a oggi sono passati tantissimi ragazzi cresciuti con un pallone inchiodato ai piedi. Rare eccezioni hanno avuto accesso al calcio professionistico. Quasi per tutti, però, lo sport è stato fondamentale per rimettere insieme i pezzi di una vita difficile. «Non siamo un’organizzazione appetibile per chi punta a fare una carriera né vogliamo fare da trampolino di lancio, non siamo nati con questo obiettivo. Abbiamo giocato fuori categoria per 13 anni, senza ottenere punti», sottolinea il presidente dell’associazione, Alberto Urbinati: «Molti dei nostri ragazzi pensavano di poter diventare un campione, tra loro non c’era nessun Darboe. La storia di chi ce l’ha fatta può rompere barriere e pregiudizi ma hanno pari dignità le storie di chi è venuto da noi solo per giocare, stare insieme ai compagni, divertirsi e crescere attraverso lo sport».
Barrow, rifugiato originario del Gambia, per un lungo periodo è stato il capitano della Liberi Nantes. Dopo un percorso di autonomia oggi ha un lavoro e una casa. In tutti questi anni ha regolarmente mandato i soldi alla famiglia: con le rimesse il fratello ha comprato un pezzo di terra e piantato degli agrumi. La sua partita vinta è quell’orto che ogni primavera profuma d’arancio.