Amadou non ascolta, con la fantasia è ai Mondiali di calcio in programma tra pochi giorni. Il Senegal non c’è, eli- minato dalla Costa d’Avorio, però ha trovato un surrogato di passione nel Brasile padrone di casa. Non per Neymar, l’annunciato protagonista, il ragazzo con l’orecchino, i pantaloni sdruciti e il parrucchiere creativo, ma per Dani Alves, il terzino destro del Barcellona che ha piedi educati, visio- ne di gioco, tiro potente e soprattutto gioca nel suo stesso ruolo. Ha preteso dagli amici che lo chiamino “Dani” e quelli lo assecondano con un certo gusto di scherno perché è bizzarro, a quell’età, identificarsi in un terzino o “esterno”, secondo la definizione moderna. Loro sono Ronaldo, Messi, Ibrahimovic. Tuttavia gli riconoscono l’autorevolezza che deriva dall’abilità e Amadou è certo il più promettente ragazzo dei dintorni. Nessuno lo supera nella corsa, nello scatto, nel dribbling, nella precisione del passaggio, ed è stravagante quella sua ostinazione nel volersi piazzare sul lato destro della difesa per poi correre lungo la fascia, imprendibile anche grazie alle magie con cui nasconde la palla.
Hanno organizzato, i ragazzi, il “loro” Mondiale, scimmiottando quello vero. Amadou è il capitano del Brasile, ovvio. E quella mattina è in programma la finale contro l’Argentina di Demba, il suo compagno di scuola che è anche l’adorabile rivale: tra talenti ci si invidia ma si finisce per riconoscersi, in un angolo recondito persino apprezzarsi.
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Amadou infila due libri a caso dentro la cartella, non gli serviranno, è una messinscena. L’appuntamento non è in aula, l’aula col tetto di paglia e le pareti di lamiera grigia, senza banchi né sedie, dove ci si accovaccia per terra davanti a un maestro e una lavagna, ma al campo di calcio, gibboso e irregolare, le porte sono due pali di legno. Il pallone lo porta Habib, una sfera ricoperta di un’aura leggendaria. Glielo ha regalato l’estate prima uno zio emigrato in Francia, quando era tornato per le vacanze.
Perché il dono risultasse più prezioso di quanto già non fosse, lo zio aveva raccontato di aver acquistato un biglietto per il quarto di finale di Champions League tra il Paris Saint-Germain e il Barcellona. Zlatan Ibrahimovic aveva tirato forte senza centrare la porta e il pallone era finito in curva. Lui era stato il più lesto a recuperarlo e nasconderlo sotto il giubbotto. Così aveva portato il trofeo al nipote ammantandolo di almeno due significati: aveva fatto fortuna in Francia se poteva permettersi il Parco dei Principi, però non si scordava delle sue origini se si privava di tanto cimelio per far felice il nipote. Fosse vero o meno l’aneddoto poco importava, era comunque ben trovato, quell’oggetto permetteva ai ragazzi di proiettarsi nella favola, di condividere qualcosa che i loro miti avevano toccato.
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Con un pizzico di rimorso e come fosse un tradimento della patria, ripiega Mame e indossa Dani, è il Brasile quel giorno. C’è già l’afa e sono solo le nove del mattino, si suda da fermi su un campo che è un’estensione del deserto senza un’ombra di refrigerio sui lati. Quaranta gradi e non sentirli perché Amadou, ai piedi vecchie scarpe smesse del padre e di due numeri più grandi, è baciato dalla grazia, prende palla, allunga, scarta uno, due, tre avversari e tira basso nell’angolo opposto, gol. Poi corre verso il centro del campo e, come ha visto in televisione, indica coi pollici il nome scritto dietro, è se stesso e pure Dani Alves. Quasi se ne vergogna, ricorda una frase del campione francese Thierry Henry, che gli ripete spesso suo zio: «Gioca sempre per il nome scritto sul davanti della maglia, ti ricorde- ranno per il nome che c’è dietro». Davanti, di solito, c’è il nome del club. È un invito a essere generoso, a giocare per la squadra.
Nell’azione successiva disegna un lancio millimetrico, un assist che il centravanti trasforma in gol.Benché preso dalla furia ludica, dalla trance in cui cade quando ha una sfera tra i piedi, Amadou si è accorto che sul bordo del campo si è fermato un fuoristrada. Ne sono scesi due uomini. Uno nero come lui e vestito con una tuta Nike. L’altro bianco, con una giacca scura, pantaloni chiari, camicia azzurra e cravatta blu, incongruo per il luogo. Stanno a braccia conserte e osservano la sfida come se fosse davvero la finale della Coppa del Mondo. Di tanto in tanto si danno di gomito e muovono il capo dall’alto in basso in segno di approvazione.
Non c’è come avere un pubblico, specialmente di estranei a cui si vuole, nel narcisismo dell’atleta, dimostrare di cosa si è capaci. Amadou raddoppia la foga, si esibisce in un tunnel ai danni di un avversario, una rabona, un’acrobazia, arriva col pallone fin dentro la porta nemica. I due signori applaudono convinti, gli sorridono. Lui abbassa lo sguardo come per pudore e quel movimento sembra l’inchino dell’attore sul palcoscenico che ringrazia il pubblico.
La partita è finita. Brasile-Argentina 5 a 3. Ma i due stravaganti spettatori non danno segno di volersi muovere, seguono i saluti e gli abbracci al centro del campo, i compagni che innalzano sulle spalle Amadou, il quale già pensa cosa racconterà ai genitori quando rincaserà, perché per loro doveva essere a scuola.
«Ehi, Dani» richiama la sua attenzione il nero in tuta Nike.
Amadou, che è chino sulla borsa a piegare la maglia col nome del calciatore del Barcellona per poi sostituirla con la t-shirt della scuola, si volta interrogativo.
«Ci sai fare col pallone» continua l’altro. «Grazie».
«Ottima tecnica, velocità di base, senso dell’anticipo e anche del gol. Poca tattica, ma è normale alla tua età, e la si può imparare».
Amadou arrossisce per l’imbarazzo, non sa cosa rispondere, un “merci” l’ha già detto.
Con fare vagamente mellifluo i due gli si sono avvicinati.
«Mi chiamo Idrissa, sono di Dakar. E lui è il signor George. Viene dalla Francia, è un osservatore per diverse squadre europee. Io sono il suo referente in Senegal, lo porto in giro per scovare promesse. Avevo saputo che c’era una finale ed eccoci qui, abbiamo ammirato il nostro Dani Alves».
«Lavorate anche per il Barcellona?».
George, che se ne era stato un passo indietro per mostrare una misteriosa autorità ieratica, si stringe nelle spalle e con tono di malcelata modestia: «No, figliolo, il Barcellona no. Ma l’Olympique Marsiglia, il Paris Saint-Germain, il Saint-Etienne, la Roma, la Sampdoria, il Palermo, il Cagliari, il Wolfsburg, il Borussia Dortmund sì. Adesso abbiamo allacciato contatti anche con il Crystal Palace di Londra».
«Il Marsiglia di Mamadou N’Diaye?». «Quello». George fa un giro d’orizzonte con lo sguardo, vede assiepati e muti a pochi metri tutti gli altri ragazzi che seguono la scena con avida curiosità e propone: «Troppa gente qui, ti va se parliamo seduti a un tavolo mentre ti bevi un’aranciata?».
“Mai dare confidenze a sconosciuti” era il trito insegnamento dei genitori, ma come si fa? Come può rifiutare quell’invito che è una porta spalancata sul desiderio?
Nella taverna il preambolo tocca a Idrissa: «Noi africani abbiamo più fisico, più talento, più fame e più voglia di arrivare degli europei. Noi africani siamo il futuro del calcio. Io ringrazio Allah di avermi dato la chance di aiutare dei ragazzi come te che sono e saranno l’orgoglio della nostra terra. Perché in te io e il signor George abbiamo visto i segni del predestinato».
«Calma calma» interviene il francese. «C’è un’ottima base. Ma la fatica sarà tanta. Non basteranno le doti che la natura ti ha dato. Ci vorranno sudore e voglia di sacrificarsi. Noi ti apriamo una porta, poi dipende da te».
Il viso, prima ancora delle parole, rivela il “sì” di Amadou, che già fantastica di un vero stadio, con delle vere scarpe da calcio, una vera divisa e la folla che lo acclama. È così che funziona, o almeno così gliel’hanno raccontata. C’è un momento fortunato in cui passa un osservatore che tutto può, ti nota e sei proiettato in carne e ossa nel tuo miraggio. È il lieto fine delle storie semplici che, saltato ogni passaggio, alimentano la fantasia, soprattutto da quando al villaggio le parabole satellitari hanno portato in casa la faccia ottimista dell’Occidente, la sceneggiatura perennemente funzionante del riscatto per quell’uno su mille che ce la fa. Quell’uno è lui, Amadou: le parole incantano quando si è predisposti ad accoglierle.
"Non dire addio ai sogni" (Mondadori, pp. 228, euro 18, in uscita il primo settembre) verrà presentato sabato 12 settembre al Festivaletteratura di Mantova da Milena Agus e Wlodek Goldkorn.