No, il Covid-19 non è una livella che si abbatte su tutti indistintamente. Anzi. Contribuisce ad allargare il divario sociale. E la disuguaglianza continuerà a incidere anche sulle ricadute successive (foto di Luca Santini)

Totò, ai tempi della pandemia, l’hanno citato in tanti: «Il Covid-19 19 è una livella, colpisce tutti indistintamente, ricchi e poveri». E l’hanno citato a sproposito. Perché il coronavirus si è in realtà accanito maggiormente sulle persone meno istruite, sulle donne, sui lavoratori poco qualificati e sugli anziani soli, contribuendo ad allargare il divario di disuguaglianza nell’accesso alle cure sanitarie che in Italia già c’era ben prima che il virus entrasse nelle nostre vite. A confermarlo sono i dati Istat e quelli dell’Istituto Superiore della Sanità fin qui pubblicati, che un gruppo di ricercatori del ministero della Salute sta esaminando per capire come si possa “Guarire dalla pandemia tornando a una salute più uguale”, che è anche il titolo della ricerca commissionata dal ministero. Il professor Giuseppe Costa, medico epidemiologo e professore di Igiene all’Università di Torino, da anni segue l’andamento delle disuguaglianze di salute nel nostro paese: «Una società più equa è fondamentale per il benessere della popolazione, perché solo il 25 per cento delle buone condizioni psicofisiche dei cittadini è merito di adeguate cure mediche, il restante 75 per cento deriva proprio dalla qualità di vita. Michael Marmot, pioniere di questi studi, a tal proposito ricorda: «Perché curare il malato e poi rimandarlo nelle stesse condizioni di vita che lo hanno fatto ammalare? In effetti il Covid-19 ha peggiorato le condizioni di vita di chi già viveva in situazioni di povertà materiale ed educativa, precarietà e isolamento. E ha minacciato l’accessibilità alle cure, che sempre meno riescono a stare al passo con l’elevata richiesta di assistenza».


Il coronavirus e il confinamento hanno compromesso in modo disuguale la salute degli italiani perché alcuni meccanismi del Servizio sanitario nazionale non erano adeguatamente strutturati per tutelare la parte più debole della popolazione. Il rapporto annuale dell’Istat evidenzia come la pandemia abbia accentuato la probabilità di morte per le persone con basso grado d’istruzione. Non solo, sempre l’Istituto di Statistica rileva che per i meno istruiti la morte sopraggiunge prima rispetto agli italiani con un alto grado di istruzione. Un fenomeno, quest’ultimo che era già vero prima della pandemia, ma che ora si sta aggravando, fino quasi a raddoppiare. «Dai dati si osserva che nelle Regioni più colpite dal virus, la distanza nel rischio di morte tra meno e più istruiti è drasticamente aumentata. Ad esempio, nella fascia di età tra i 65 e i 79 anni, se prima della pandemia gli uomini con meno istruzione avevano un eccesso di morte del 28 per cento rispetto alla media, nel 2020 quel dato è schizzato al 58 per cento. Per le donne va ancora peggio: l’eccesso di decessi è passato da più 19 per cento a più 68 per cento», dice il professore.

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Prima in Piemonte, poi in Emilia Romagna, successivamente nelle altre Regioni è partita un’indagine a tappeto per capire come mai queste persone morissero di più e se questo fenomeno fosse evitabile. «Siamo partiti dal Piemonte perché in questo territorio è possibile classificare i residenti per livello di svantaggio sociale, ed è risultato subito evidente che, ad esclusione dei lavoratori della sanità, che per ragioni professionali erano più colpiti dal virus nonostante fossero benestanti, la probabilità di infezione accertata con un tampone aumentava col crescere del numero di svantaggi sociali patiti: ovvero bassa istruzione, permanenza in una casa povera, affollamento abitativo, residenza in un quartiere deprivato. Le persone a cui corrispondevano tre o quattro di questi svantaggi avevano una probabilità di infettarsi superiore del 70 per cento rispetto alla media nazionale», racconta Costa. Quando a luglio 2020 l’Istat ha contato le persone che avevano tracce di anticorpi - quindi ha considerato anche gli asintomatici sfuggiti al tracciamento e non solo chi aveva un tampone positivo - si è visto che si erano infettati maggiormente - oltre agli addetti alla sanità e coloro che svolgevano attività di servizio al pubblico - le persone con basso grado di istruzione e i migranti. In particolare tra gli adulti tra i 35 e i 65 anni con appena la scuola dell’obbligo le infezioni aumentano del 2,1 per cento, fra i migranti del 4,5 per cento. Anche la mortalità da Covid-19 è risultata maggiore fra la popolazione con svantaggi sociali: «I più fragili non solo sono risultano essere più esposti al contagio, ma sono anche stati uccise con maggiore frequenza dall’infezione», puntualizza il professor Costa.


Anche la probabilità di essere ricoverati per Covid-19 è aumentata con il crescere del numero di svantaggi sociali, in media del 60 per cento tra gli uomini e del 49 per cento tra le donne: «Sulle persone più socialmente vulnerabili e quindi clinicamente più fragili la pandemia si è abbattuta con maggiore virulenza: si sono verificate più infezioni, casi più gravi e un maggior numero di ricoveri ospedalieri», argomenta il professore. Poi, una volta presi in cura dall’ospedale, le disuguaglianze si sono azzerate, perché l’assistenza ospedaliera è stata equamente ripartita in proporzione al bisogno: «La probabilità di essere trasferito in terapia intensiva e quella di di morire per Covid-19 sul letto di un ospedale è risultata la stessa tra ricchi e poveri». Un’amara consolazione, perché comunque le persone socialmente svantaggiate si sono infettate maggiormente dei cittadini abbienti e sono morte in maggior numero. «Questo accade soprattutto perché poveri sono più spesso affetti da malattie croniche, che aggravano gli effetti dell’infezione e, per questo, vengono colpiti dal rischio di morte in modo più intenso e disuguale, senza che l’assistenza ospedaliera, seppur offerta equamente, possa evitarlo», spiega l’epidemiologo Costa, che aggiunge come questo fatto si rifletterà anche su un allargamento delle disuguaglianze sociali per quanto riguarda la sopravvivenza: «A causa della mortalità in eccesso da Covid-19 l’aspettativa di vita nel 2020 si è ridotta di 1,4 anni per gli uomini e un anno tra le donne. Essendo l’eccesso di mortalità cresciuto di più fra le persone di basso status sociale, anche la disuguaglianza sociale di aspettativa di vita si allargherà».


Se i sistemi sanitari territoriali e, in generale, le politiche locali, avessero lavorato sulla riduzione dei divari, soprattutto migliorando le condizioni di vita in alcuni quartieri particolarmente deprivati e difendendo alcune fasce professionali, segnate dal precariato e dalla scarsità di misure di sicurezza, allora si sarebbe potuto ridurre il volume dei contagi.


Mentre, a proposito della mortalità disuguale, «bisognerebbe che la sanità territoriale fosse più attrezzata per prendere in carico attivamente le malattie croniche predisponenti l’aggravamento dell’infezione. Al contrario, spesso manca iniziativa e ci si limita ad attendere che il paziente si presenti ai presidi medici con un peggioramento delle condizioni di salute», dice il professore.
Chi è meno istruito e ha scarse risorse economiche con il post Covid-19 sta patendo gravi effetti sulla salute mentale. A rivelarlo è il sistema di sorveglianza Passi dell’Istituto Superiore di Sanità che ha monitorato gli aspetti soggettivi e comportamentali della pandemia. I dati mostrano che le persone socialmente svantaggiate lamentano nella vita quotidiana un’alta ricorrenza di pensieri intrusivi, cioè di pensieri incontrollabili e negativi di allarme o minaccia.
Anche l’indagine Mimico, il monitoraggio dell’impatto indiretto del Covid-19, compiuta in Emilia Romagna, Lazio, Piemonte e Puglia, mostra che il recupero delle liste di attesa per interventi oncologici e ortopedici sta avvenendo in modo disuguale e le persone più disagiate hanno minore probabilità di accedere a un intervento: «Chi è benestante ha più mezzi e competenze per rivolgersi alla sanità privata a pagamento ed evitare le liste d’attesa, oltre ad avere maggiori conoscenze e reti sociali per orientarsi meglio nell’offerta», commenta Costa.


L’ultimo elemento che rischia di far esplodere le disuguaglianze sul fronte del benessere psicofisico riguarda gli effetti del confinamento provocato dal lockdown. «Sono reazioni non ancora percepibili, ma che nei prossimi anni avranno ricadute importanti sulla salute delle persone. In particolare colpiranno gli indigenti, i disoccupati o sotto occupati, chi ha meno opportunità abitative, gli anziani soli e chi ha ricevuto meno aiuto sociale. Il fenomeno più allarmante riguarda i bambini di famiglie povere che, a causa di svantaggi nella fruizione della didattica a distanza, hanno perso significative opportunità di sviluppo e mesi di apprendimento. Come ricorda Michel Marmot, questi svantaggi sono i principali determinanti del benessere e, una volta passata la pandemia, eroderanno la salute fisica e mentale di questi futuri adulti», dice l’epidemiologo. Pagheranno un effetto negativo a lungo termine anche i lavoratori meno qualificati e i pensionati, i primi perché faranno ancora più fatica ad uscire dalla situazione di sotto occupazione, i secondi perché devono far fronte a maggiori spese per convivere con la pandemia.
«La pandemia ha interrotto la favorevole serie di diminuzione assoluta delle disuguaglianze nella mortalità. Se la sanità vuole evitare che questi effetti si trasformino in aumento della domanda sanitaria nel futuro, deve diventare il più esigente avvocato degli investimenti del Pnrr, sia quelli per l’inclusione sociale, sia quelli destinati alla sanità territoriale», dice il rapporto “Proposte per l’attuazione del Pnrr in sanità: governance, riparto, fattori abilitanti e linee realizzative delle missioni” messo a punto da sedici professori di sei Università italiane per meglio spendere il denaro che arriverà dall’Europa.
La fotografia di quanto le disuguaglianze rischiano di impattare negativamente sulla salute degli italiani è stata nitidamente scattata dai ricercatori del ministero della Salute nel report “Guarire dalla pandemia tornando a una salute più uguale”. Il dossier indica le aree strategiche di intervento e i territori su cui intervenire, peccato che quel documento non sia ancora stato reso pubblico e resti chiuso in un cassetto. Nel frattempo il tempo scorre ed entro fine anno le Regioni dovranno presentare i propri progetti a Roma, con il rischio di trascurare proprio il fenomeno della disuguaglianza sanitaria e di mancare l’obiettivo di favorire la creazione di una società più giusta.