Reportage
Ritorno ad Amatrice: a cinque anni dal terremoto finalmente tra le macerie svettano le gru
Demolizioni, edifici imbragati per la messa in sicurezza. Nel Cratere che si allunga dal Lazio alle Marche si vedono finalmente segnali di ripartenza. E molti abitanti attribuiscono il merito al Commissario straordinario (Foto di Alessandro Penso)
Esiste una statua della Madonna in un garage, a San Lorenzo a Flaviano, provincia di Rieti. L’hanno sistemata lì dopo averla recuperata, intatta, dalla chiesa del paese che aveva il tetto collassato. Ai piedi della statua, chi abita nell’edificio depone fiori sempre freschi. Dietro quel che resta di un’altra chiesa, il duomo di Amatrice, il Comune ha arrangiato alcune arnie: il silenzio della zona rossa lo rende un buon posto per le api. Venti chilometri a sud, a Montereale (L’Aquila), un foglio su una porta invoca la Madonna delle Grazie: «Proteggi le nostre case».
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Si è allungato per mesi e chilometri il terremoto, attraversando stagioni e province in un unico movimento. Una sequenza che dall’estate 2016 è arrivata ai primi mesi del 2017, interessando una zona sismica – il Cratere – che dal Lazio arriva nelle Marche, dall’Abruzzo in Umbria. Più di altri, l’immaginario conserva il nome di Amatrice. Per i numeri (299 morti tra il paese e le frazioni), per l’ampiezza della devastazione del centro, per il peso che tradizionalmente ha avuto nell’area. Oggi i ristoranti, tra i motori dell’economia locale, si concentrano nella frazione di San Cipriano, in una cosiddetta Area Food che si propone come distretto della ristorazione. Poco lontano, due centri commerciali ospitano gli altri negozi del nucleo urbano perduto: abbigliamento, banche, un bar con la foto di com’era fino a cinque anni fa. Nei mall l’estetica è impersonale, c’è un senso di anestesia, ma ci si riunisce come in una piazza perché lo stravolgimento dello spazio ha stravolto la socialità.
Le aree nuove si aprono accanto alla zona rossa, quello che era il centro storico e che oggi è una spianata da cui emergono monconi di passato. Gino Allegritti, responsabile della comunicazione del Comune, quando accompagna i giornalisti si sforza di individuare a terra le sagome delle case per non calpestarle. Dice che le macerie si muovono e rumoreggiano di continuo: «Sembra materia viva». La signora Elide, nel vicino Campo Zero, spiega che casa sua non è più in grado di riconoscerla: «Era di tre piani, adesso è così», dice con la mano bassa. A pochi metri dai resti di una chiesa, è in fase di consegna un nuovo condominio di circa sessanta appartamenti.
Ovunque nel Cratere si alternano demolizioni, ricostruzioni, edifici imbragati per la messa in sicurezza. Facile inciampare su staffe, barre, campioni di perforazioni che verificano la qualità del terreno. «Non c’è giorno che non parta un cantiere, la ricostruzione vera è iniziata adesso. Se vuoi capire cosa sta succedendo, invece di lamentarti a prescindere, i segnali li trovi tutti», dice Allegritti. «Quando l’orizzonte non si vedeva, abbiamo tenuto botta e non c’è stato un esodo». La preoccupazione demografica ricorre spesso nel Cratere, dove il terremoto si è aggiunto a uno spopolamento di decenni.
Gru tra edifici in rovina, uffici di cantiere e spogliatoi degli operai accanto a bici abbandonate e folti d’ortica. Vuoti improvvisi dove le fondazioni nuove preparano pieni futuri. Il silenzio e il rumore si alternano: se Trisungo è percorsa da bruciatori e martelli pneumatici, a Retrosi si sente giusto il chiù dell’assiolo. Il paesaggio nel Cratere è differenziato ma in evoluzione. La quasi totalità degli abitanti che incontriamo riconosce il cambiamento e lo attribuisce alla nomina di Giovanni Legnini, nel 2020, a Commissario straordinario per la ricostruzione. Intanto per la sforbiciata ai tempi burocratici, ben visibile nelle ordinanze speciali in deroga (a maggio Legnini ne ha firmate sette). In questi anni la lentezza è stata spesso immobilità e ha esasperato gli abitanti, a fronte della velocità spaventosa con cui le vite sono cambiate. Accanto alla semplificazione, la struttura commissariale ha messo in moto un energico reperimento di risorse, tra Recovery Fund e fondi europei.
«Ma i soldi, senza una visione, non sarebbero serviti a nulla» dice Sonia Santarelli del “Comitato civico 3 e 36”. E la visione si costruisce in modo partecipato, perciò il nuovo approccio è passato anche per il confronto. «Non col lamento ma col dialogo, sono cambiate le cose», sostiene Allegritti. «Legnini ha chiesto quali fossero i bisogni e i problemi, al livello pratico, e le comunità hanno risposto». Il sindaco Michele Franchi spiega che anche ad Arquata del Tronto, in provincia di Ascoli Piceno, si è puntato sull’ascolto: «Gli scenari di ricostruzione sono stati sottoposti agli abitanti e votati con un questionario». E anche lui sottolinea l’accelerazione felice, restando cauto: «Non dobbiamo abbassare la guardia».
Nel Cratere non si sono dimenticati gli errori, l’avvicendarsi di commissari e di false partenze. «All’inizio hanno ricalcato la macchina dell’emergenza sul modello del terremoto dell’Aquila, che però è una città: quindi per esempio non erano previsti interventi sulle stalle», dice Santarelli. Nel paese di Torrita la sua stalla cadde a ottobre. Nonostante le scosse siano state molte, nella sequenza gli abitanti citano sempre tre momenti: la notte d’agosto, il mattino d’ottobre e quello di gennaio con la neve. «Prima che la terra tremi, c’è un vento. Mio padre l’ha riconosciuto» dice Santarelli, «si è messo a gridare, ha fatto sciogliere gli animali che erano legati nella stalla. Due minuti dopo è venuta giù».
Ovunque, nel Cratere, i segni della distruzione sono tutt’ora visibili. Nei borghi abbandonati, a certi edifici manca una parete e dalla strada si vedono letti e mobili. Di altri resta una parete sola, con le giacche ancora sull’appendiabiti o i piatti impilati sulle mensole. Spesso la materia ha deformazioni (corrimani piegati, edifici tagliati a metà) e le forme sovvertono il rapporto tra alto e basso: grondaie ai piedi degli edifici, balconi sradicati che penzolano. Ci sono scarpe nell’erbaccia e motociclette tra i massi. Ci sono porte che sembrano esser state dimenticate aperte, e dentro rivelano case dall’arredamento integro: vetrinette, santini, bottiglie di liquore, collezioni di conchiglie. Anche muoversi dà ancora disagi: deviazioni, cartelli coperti da reti rosse, strade interrotte da camionette militari. Su una sopraelevata, uno striscione dice: «L’onore ha un senso persino tra i ladri ma non ne ha nessuno nella politica: 4 anni di vergogna».
In giro si incontrano mezzi di soccorso donati dalla polizia di Brescia e campi sportivi donati dagli ultras di tutt’Italia. Dopo il sostegno nell’emergenza, anche la ricostruzione passa per le donazioni. Al finanziamento dei nuovi uffici del Comune di Amatrice ha contribuito la comunità cinese di Milano, al nuovo ospedale il governo federale tedesco, alla scuola “Sergio Marchionne” il gruppo Fca. Se il futuro inizia a poter essere immaginato, il presente mantiene le forme dei prefabbricati. I municipi e le chiese, i negozi e gli uffici postali. Soprattutto le abitazioni, le Sae (Soluzioni abitative in emergenza): casette provvisorie dai colori caldi, di cartongesso rivestito da materiale isolante. Tutte uguali nel Cratere, così che ciascuno personalizza i propri esterni con vasi di fiori, statue, arredo da giardino.
Egidio, 98 anni, zappa l’orto sul retro e accoglie gli amici nella veranda. Chi non è stato disposto a vivere in un insediamento del genere ha potuto optare per il Cas (Contributo di autonoma sistemazione), un rimborso dell’affitto in altro luogo. Chi ha scelto di restare, ha fatto degli insediamenti di Sae un paese nuovo. In quello che ospita i sopravvissuti di Accumoli ci sono la piazza, la chiesa, le aiuole che la più anziana degli abitanti viene ad annaffiare. Se chiedi come si chiami l’insediamento, un frate che ci vive, Mimmo, risponde con sorpresa: «Questa è Accumoli». Verranno ricostruite anche le case di chi nel Cratere viveva a intermittenza, il cosiddetto “popolo delle seconde case”. Nel frattempo la loro assenza danneggia le casse locali, aggiungendosi alla scarsità di turismo tra terremoto e Covid-19.
Le poche strutture ricettive di Arquata, spiega il sindaco Michele Franchi, ospitano gli operai dei cantieri. Ma nel suo ufficio, costellato di vedute del paese com’era, Franchi non ha dubbi: «Ora c’è speranza, perché la gente inizia a toccare con mano». Negli ultimi mesi, in gran parte questi territori si sono riempiti dell’operosità che era mancata ovunque. La fatica si è alleggerita con un’ipotesi di futuro, le gru hanno riempito l’orizzonte. A Trisungo, sulle rive del Tronto, ce ne sono cinque, e le strade di pietra sono ingombre di cavi, travi, nastri rossi. Un operaio indica le fondazioni d’un edificio in costruzione: «Cento metri cubi di cemento solo di platea. E se ti dico quanto ferro c’è qua dentro ti metti paura». A monte, nella frazione di Spelonga, il pastore Biagio ha le idee chiare su cosa abbia appreso dall’esperienza di cinque anni fa: «Le paure devi lasciarle stare, non puoi farti condizionare. Io ho accettato la sfida e sono restato. Quest’inverno ho messo le ossa dentro un canestro e mi sono costruito una stalla nuova».