Salute pubblica
Sanità, dove rischia il piano Marshall
Centinaia di nuovi ospedali e presidi territoriali da costruire. Decine di migliaia di infermieri da assumere. Ma ammodernare il sistema vuol dire rivoluzionarlo
La rivoluzione sanitaria italiana passa attraverso la realizzazione di 1350 presidi territoriali e 381 nuovi ospedali. Un gigantesco investimento edilizio che, se non sarà accompagnato dall’assunzione di almeno 33 mila infermieri, sarà totalmente inutile. Il problema è che i nuovi ingaggi non potranno essere effettuati sfruttando i 20,23 miliardi messi a disposizione del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, Pnrr, così come impone l’Europa, al contrario dovranno essere a carico del bilancio pubblico che (per il momento) non ha a disposizione il denaro necessario. Ma andiamo con ordine.
Il piano Marshall sanitario ha due obiettivi: trasformare i servizi territoriali e modernizzare la rete ospedaliera. La parte più semplice del piano dovrebbe essere proprio la riqualifica degli ospedali, ma non sarà facile capire su quali puntare: «Se due ospedali su tre hanno raggiunto un sufficiente livello di specializzazione, utile ad affrontare nel modo più corretto le patologie e le urgenze sanitarie, non si può dire lo stesso del restante 30 per cento, che non raggiunge una casistica minima di interventi. Questo significa che il venti per cento della popolazione viene curato in ospedali privi della competenza minima per affrontare, ad esempio, un infarto, un carcinoma, un parto», spiega Francesco Longo, ricercatore del Cergas Bocconi, centro di ricerca sullo stato di salute del Servizio Sanitario Nazionale. I più alti livelli di specializzazione, che si traducono in una maggiore qualità delle cure, si collocano per lo più al centro Nord, lasciando pressoché scoperto il Sud Italia, il che spiega anche l’elevata mobilità sanitaria di pazienti in fuga dai nosocomi del meridione.
Nel Pnrr si punta a riqualificare i piccoli ospedali, dotandoli di nuove strumentazioni, senza però considerare le casistiche minime. In particolare vengono stanziati 1,19 miliardi per il rinnovo di 3.133 grandi apparecchi tecnologici - cioè tac, risonanze magnetiche, angiografi, macchinari per scintigrafie, radiografie, ecografie e mammografi - ma senza assicurare che queste nuove macchine offrano alcun miglioramento in termini di efficacia clinica. Perché se è vero che l’Italia ha un indice di obsolescenza dei macchinari fra i più alti d’Europa (il 79 per cento delle apparecchiature è vecchio), è altrettanto vero che possiede un numero di risonanze magnetiche e tac spropositato (il 160 per cento in più rispetto alla media europea, stando ai dati della Corte dei Conti) e che è anche il paese che le usa meno.
«È quindi importante che questa nuova allocazione di risorse contribuisca ad aumentare la casistica minima degli ospedali e a sostenere la nascita di hub specialistici al Sud per accrescerne le competenze e contrapporsi alla mobilità ospedaliera. Al contrario, spalmando questi macchinari in modo orizzontale sulla struttura esistente si rischia di non far evolvere il sistema e di sprecare miliardi in tecnologie e nuovi padiglioni che non servono ad aumentare la qualità delle cure e la produttività del Ssn. Dovremmo avere meno apparecchiature tecnologiche, da usare di più», spiega Longo. In concreto questo vorrebbe dire sfruttare le apparecchiature fino a sedici ore al giorno per le visite nel regime di Servizio Sanitario Nazionale, stravolgendo i perimetri della pratica dell’intramoenia, ovvero la possibilità per i medici di fare diagnosi in attività libero professionale utilizzando le strumentazioni degli ospedali pubblici: «È uno scempio, macchine che costano milioni vengono usare solo per poche ore al giorno, di conseguenza gli ospedali le tengono per parecchi anni, diventando obsolete», commenta il professore. Rivoluzionare il sistema significa cambiare i modelli organizzativi e i turni di lavoro, i sistemi di incentivazione e le retribuzioni professionali per far funzionare i macchinari più ore al giorno. E questo si scontra con la scelta del 45 per cento dei medici - sono 11.616 professionisti - di esercitare la professione privata, sottraendo tempo alle visite per il Ssn e impedendo quindi di abbattere le liste d’attesa, che in epoca Covid-19 sono ulteriormente lievitate. I medici, dal canto loro, già lamentano di essere troppo pochi per sostenere i nuovi ritmi. Ad esempio, i radiologi hanno lanciato l’allarme, avvertendo che l’età media del personale è di 57 anni e c’è poca dimestichezza nell’utilizzo dei nuovi macchinari, mentre servirebbe assumere giovani che abbiano già le competenze per l’utilizzo delle apparecchiature: «Acquistare macchinari senza avere il personale medico per utilizzarli al meglio è come avere una fuoriserie senza un pilota capace di portarla in pista», avverte Corrado Bibbolino, segretario del Sindacato Nazionale Area Radiologica.
A complicare ulteriormente la situazione, c’è il dato di fatto che nessun giovane medico vuole lavorare in un contesto periferico e infatti i concorsi negli ospedali di montagna e nelle aree interne vanno deserti. Risultato: si rischia di attrezzare presidi ospedalieri con strumentazioni potentissime, senza il personale in grado di farlo funzionare.
Dunque, resta da districare il nodo di come rimettere sui giusti binari 270 piccoli e piccolissimi ospedali, tutti con meno di 120 posti letto e che, per altro, in base al Decreto ministeriale 70 del 2015, non dovrebbero neppure esistere: «Dovrebbero chiudere, per legge, soprattutto perché sono pericolosi», continua Longo. «Chi vi opera non ha una casistica minima di pazienti e non può assicurare cure efficaci per trattare un infarto, un cancro. Prima di stanziare finanziamenti a pioggia per riqualificare gli ospedali, sarebbe utile definire un nuovo modello organizzativo, raggruppando quelli esistenti in ospedali a rete (quindi senza chiudere alcun nosocomio, ma permettendo alle equipe di medici di ruotare tra le varie sedi per specializzarsi negli interventi) oppure accorpandoli e riducendoli in numero, come è successo in molte regioni, dall’Ospedale della Versilia in Toscana ai Castelli Romani in Lazio».
Tuttavia la razionalizzazione non sembra essere una priorità del Pnrr, che al contrario punta a costruire nuove strutture senza relazionarle a quelle già esistenti. Ad esempio, in programma c’è la costruzione di 1.350 case della comunità e altri 1.200 ospedali di comunità, stando all’ultima versione del piano inviata a Bruxelles. Le Case della Comunità si ispirano al modello emiliano, veneto e toscano e sono pensate per rispondere a quel 38 per cento di italiani (23 milioni di cittadini) affetti da malattie croniche, come ipertensione, diabete, problemi respiratori, nefropatia e scompenso cardiaco: «L’idea forte del Pnrr è costruire una casa della comunità ogni 33mila abitanti, per farle diventare il perno della presa in carico dei pazienti cronici. All’interno di queste strutture operano il medico di medicina generale - che imposta la terapia - e gli infermieri di comunità, che monitorano costantemente i pazienti, avendo a disposizione dati e referti per verificare che le cure avvengano nel modo più corretto. La rivoluzione dovrebbe essere lo sviluppo di competenze digitali per gli infermieri, che si troveranno a maneggiare un’infinità di dati e informazioni utili per l’efficacia clinica», spiega il professore della Bocconi.
Dovrebbero inoltre essere realizzati 1.200 ospedali di comunità con 24 mila posti letto territoriali, utili a rispondere ai bisogni sociosanitari degli anziani fragili. Si tratta di strutture a gestione infermieristica, con un medico presente per non più di tre ore al giorno: «L’investimento edilizio è significativo, ma rischia di essere inutile se non sarà affiancato dalla presa in carico orizzontale del paziente. Entro cinque anni il 25 per cento della popolazione avrà più di 65 anni, serve un sistema in grado di accompagnare le persone anziane e fragili da un nodo all’altro del sistema di assistenza, per evitare che, come spesso succede oggi, il paziente dimesso dall’ospedale venga abbandonato a se stesso». Infatti 280 milioni di euro del Pnrr sono stanziati per la creazione di 602 Centrali operative territoriali, dette Cot, composte da sei infermieri che accompagnano l’anziano alla riabilitazione, alla lungodegenza o verso le cure domiciliari: «Ma se si costruiscono soltanto i muri e non si crea una rete strutturata, allora si rischia di aggiungere soltanto una struttura a quelle già esistenti, creando ulteriore confusione, senza rispondere alle esigenze di sei milioni di cittadini, fra non autosufficienti, anziani e fragili».
Resta poi da risolvere il nodo delle assunzioni, dal momento che Agenas, l’Agenzia Nazionale per i Servizi Sanitari, ha stimato che, per far funzionare gli ospedali di territorio e le Case della Comunità, sarà necessario assumere oltre 33mila infermieri (numero simile ai 36mila nuovi dipendenti assunti a tempo determinato per far fronte all’emergenza Covid-19), aumentando di un quinto il costo del personale infermieristico. In realtà, proprio gli stipendi dei dipendenti del Servizio Sanitario Nazionale, che complessivamente si aggirano attorno ai 35 miliardi l’anno, sono già ben oltre i limiti previsti dal tetto di spesa (ovvero 29 miliardi), che non sono comunque sufficienti per garantire cure di qualità, visto che il numero dei sanitari assunti con contratti precari è aumentato del 60 per cento nell’ultimo decennio. Inoltre le previsioni di Agenas potrebbero essere sottostimate, poiché, stando a un’analisi del Crea, Consorzio per la Ricerca Economica Applicata in Sanità che fa capo all’Università Tor Vergata, bisognerebbe assumere fra i 162 mila e i 272 mila infermieri per stare al passo con la richiesta di cure sanitarie del paese: «Le prospettive di assumere e formare più personale nei prossimi anni, senza un’efficace politica retributiva, potrebbe rivelarsi un flop, determinando la fuga dei migliori professionisti verso sistemi sanitari che che meglio li remunerano», commenta Federico Spandonaro, economista e presidente del Crea, che continua: «Dal punto di vista delle politiche sanitarie da mettere in atto per alleggerire la sofferenza del Ssn, potrebbe rivelarsi necessario trasferire alcuni compiti dal medico all’infermiere». Ma queste figure professionali, al netto del problema di dover aumentare le risorse annuali correnti per il Ssn, non sono oggi disponibili sul mercato. Pertanto il sistema universitario dovrà aumentare significativamente la propria capacità formativa, tema che a sue volte richiederà importanti investimenti nel sistema educativo, non ancora chiaramente disponibili.
Infine c’è da definire l’utilizzo degli otto mila poliambulatori territoriali, sono uno ogni settemila abitanti, pochissimo usati, aperti due o tre giorni la settimana, che offrono pochi servizi, per nulla digitalizzati e in stato manutentivo precario. La scelta è fra costruire nuove strutture, consumando suolo verde e impattando ulteriormente su territori già cementificati, o riutilizzare i presidi, decidendo quali abbandonare e quali riqualificare. «Potrebbe essere l’occasione per fare un po’ di chiarezza nella rete dei poliambulatori, ma perché questo avvenga serve un mandato chiaro da parte del ministero della Salute per stabilire chi e come dovrà agire per riqualificarli, se le Regioni o le aziende sanitarie locali, anche per contrapporsi alle inevitabili spinte campanilistiche che invocano frammentazione delle strutture».