La vicenda afghana è solo l’ultima dimostrazione della necessità di un esercito europeo. Restano però divisioni e dubbi. Con un’unica certezza: non assomiglierà a quelli nazionali

l ritiro delle truppe americane dall’Afghanistan avrebbe potuto essere per la costruzione di una difesa europea ciò che l’emergenza Covid-19 è stata per il debito comune: la grande crisi che obbliga all’azione dopo anni di ipotesi e circonlocuzioni. Stare a guardare mentre settemila soldati statunitensi conducono la più grande evacuazione della storia in meno di due settimane, in piena autonomia, senza consultarsi con nessuno dei partner ventennali nella lotta al terrorismo, avrebbe potuto essere un’umiliazione sufficiente per stimolare una reazione profonda. E invece pare proprio che non sarà così. «Il caso Afghanistan ha confermato quanto sapevamo, cioè che l’Unione europea non ha la volontà politica e gli strumenti per risolvere da sola un’emergenza internazionale», dice Claudia Major del German Institute for International and Security Affairs: «Ma non l’ha colpita così tanto da vicino da metterle fretta».
Eppure, rispetto a qualche anno fa, ante-Brexit, quando l’esercito europeo era poco meno di un tabù, oggi tra le élite europee la necessità della costruzione di una difesa comune è oggetto continuo di discussone se non ancora una certezza acquisita. «In quanto potenza economica e democratica globale, può l’Europa accontentarsi di una situazione in cui è incapace di garantire la salvezza e l’evacuazione dei suoi diplomatici, dei suoi cittadini e di chiunque li abbia aiutati?» ha scritto il presidente del Consiglio europeo Charles Michel, in un documento a inizio settembre: «È sempre più evidente che dobbiamo ridurre le nostre dipendenze e rafforzare la nostra autonomia strategica». Ma poi l’ultimo incontro al vertice tra i ministro degli Esteri dei 27 ha finito per sfociare in una grande seduta terapeutica di gruppo. Così rischiano di fare sorridere anche le parole dell’Alto rappresentante Josep Borrel, di fatto il ministro degli Esteri europeo, che continua a ripetere sui giornali di mezzo mondo la necessità di costituire una “forza europea di intervento rapido” di almeno 5mila unità, il minimo per potere sperare di portare a termine un qualsiasi intervento. L’idea non è nuova: nata nel 1999, quando si puntava addirittura ad un esercito composto da 50mila soldati, è poi sfociata nei battaglioni da 1.500 militari creati nel 2007. E mai utilizzati.


Nel frattempo il mondo è cambiato. Con la transizione ecologica e la fine della corsa all’oro nero, con l’ascesa esponenziale della Cina e l’alba delle guerre cibernetiche, l’Europa si ritrova sulle sabbie mobili di un mondo in cerca di un nuovo equilibrio, la vecchia coperta della Nato che si assottiglia ogni giorno di più. Quando Joe Biden ha raccolto il testimone presidenziale da Donald Trump si è capito che la politica estera di quest’ultimo non era solo il frutto di una sua intemperanza caratteriale ma soprattutto il prodotto di un cambio di strategia di tutta l’amministrazione americana. Perché rispetto a 50 anni fa la Cortina di ferro non si trova più in Europa: ha traslocato, armi e bagagli, in Estremo Oriente. Adesso gli incubi americani (Cina soprattutto) non coincidono più con quelli europei. E dunque le priorità strategiche sono diventate “divergenze parallele”. Il mar Mediterraneo è tornato ad essere “nostrum”, nel senso di problema italiano, ed europeo più in generale, con tutta la sponda africana portatrice diretta di minacce terroristiche, come sanno bene i francesi che, con contingenti di vari Paesi europei, italiani inclusi, da anni cercano di stabilizzare Mali e Niger. E va bene ribadire che la Turchia è partner della Nato: intanto i ricatti e le aggressioni (anche marittime) di Recep Tayyip Erdogan puntano sempre e solo all’Europa, resa debole dalla necessità di assicurarsi un cuscinetto contro i costanti influssi migratori. «Cosa vuole dire difesa europea?», si chiede un diplomatico del Sud Europa a Bruxelles a poca distanza dai nuovi quartieri generali che la Nato ha inaugurato un paio di anni fa: «Occorre prima fare una riflessione sulla Nato, sul suo futuro e sul nostro rapporto con essa. Perché dalla vicenda afghana non è la difesa europea, che è ancora embrionale, ad uscirne male ma è l’Alleanza atlantica».

 

Oggi paiono preveggenti le parole di Emmanuel Macron del 2019, quando, all’indomani dell’abbandono della Siria da parte di Trump, aveva detto, tra l’incredulità pubblica dei più: «Stiamo vivendo la morte cerebrale della Nato». Che poi la Francia, unico Paese europeo ad avere un seggio all’Onu e la bomba nucleare, e lo stato membro militarmente più forte dell’Unione, è stato il primo a ritirare le truppe dall’Afghanistan nel 2014 e a iniziare l’evacuazione dei civili lo scorso maggio. Oggi - ma anche ieri, forse dai tempi del generale de Gaulle - è il Paese europeo che più spinge per una difesa comune: «Un partner più forte è uno su cui l’America potrà contare», sottolinea una fonte francese: «Un esercito comune non crea duplicazioni: le nostre risorse potranno essere messe a disposizione della Nato o dell’Onu, a seconda delle necessità».


Sul rapporto tra Ue e Nato non tutti concordano. La stessa frattura nord-sud che divide l’Unione sulle materie economiche, la separa tra est e ovest in politica estera. I Paesi baltici e la Polonia, acerrima nemica della Russia, resistono a ogni richiamo a una organizzazione militare comune perché «potrebbe drenare risorse alla Nato, che è l’unica istituzione che fino a oggi ha funzionato», dice un diplomatico dell’Europa orientale. D’altro canto anche i Paesi più allineati con la Francia, come Italia, Olanda e Germania (sempre che la nuova coalizione che uscirà dalle elezioni del 27 settembre confermi la linea del governo Merkel) sono sì pronti a formare un gruppo di “volenterosi” da cui partire per organizzare una difesa comune ma in cambio chiedono concessioni su cui la Francia (ancora) non ci sente: «Perché il seggio francese all’Onu non diventa un seggio europeo?», si chiede il diplomatico del Sud Europa.


Su una cosa a Bruxelles si potrebbe riuscire a trovare il consenso, mettendo in conto una buona dose di compromessi: la necessità di un orientamento strategico comune che identifichi le minacce alla sicurezza e ai valori europei in provenienza sia da est sia da sud. Il primo prodotto di questo sforzo congiunto sarà la “Bussola strategica”, ovvero una road map che, non a caso, sarà presentata in via definitiva dalla Francia durante il suo semestre di presidenza di turno dell’Unione la prossima primavera. Un passo da non archiviare subito come “inutile”. Anche perché, concordano un po’ tutti, non sarà mettendo insieme i singoli eserciti nazionali e le loro culture nazionali ancestrali che nascerà la forza militare europea del futuro. «Non c’è più bisogno di carri armati per mettere in ginocchio un Paese», dice Major: «La difesa si sta spostando al di fuori del puro regno militare». A Bruxelles si parla sempre meno di soldati e sempre più di esperti cibernetici, di difesa spaziale (ambito in cui l’Italia è leader), di droni e, in generale, di investimenti in tecnologia avanzata. La nuova frontiera della difesa del futuro. Sebbene ancora frammentata in una miriade di programmi e istituzioni, dal Fondo di difesa europeo al Programma digitale, dal Consiglio europeo per l’innovazione a Horizon Europe, sta lentamente emergendo una “capacità europea” nei settori della difesa, dello spazio e del digitale. La Commissione ha appena messo sul tavolo «le dieci aeree di azione in cui la Ue può rafforzare la sua autonomia strategica»: la sicurezza alimentare va di pari passo con quella digitale e spaziale. Per dirla con Raluca Csernatoni, del Carnegie Europe: «Agli albori dell’era della digitalizzazione globale e della rivalità geo-strategica, la tecnologia sta creando nuove fonti di potere e di sicurezza negli affari internazionali». Un potere di cui l’Unione europea questa volta non potrà fare a meno. Se vorrà sopravvivere.