Da mesi l’Espresso raccoglie storie di abusi con la campagna #lavoromolesto in collaborazione con Cgil. Ma anche nei commenti emerge quanto la sottovalutazione e minimizzazione di queste violenze sia estesa

Ci sono le storie, dure e crude. E i commenti. Talvolta rivelatori di quanto siano radicati i cliché. «Morire dentro per una pacca sul sedere. Mi mancava», scrive un utente sui social. Sotto il post con la storia di una ragazza di 21 anni che descrive come si è sentita dopo aver subito molestie da parte del suo responsabile, davanti agli occhi di chi seguiva il corso in piscina. Fabiola non ha più parlato dell’accaduto per non invalidare il tirocinio e perdere i crediti che le servivano per laurearsi. «Lo sport è uno degli ambiti professionali in cui le donne sono più riluttanti nel denunciare le violenze», spiega Daniela Simonetti, presidente dell’organizzazione Il Cavallo Rosa/ChangeTheGame, impegnata a proteggere atlete e atleti da violenze e abusi sessuali, emotivi e fisici. «Le regole sono vecchie, il linguaggio cristallizzato, sussistono comportamenti di tipo omertoso che pongono denunciante e denunciato sullo stesso piano, così tante hanno timore di raccontare, per paura di essere costrette a interrompere la carriera». Questo vale soprattutto per le atlete ma anche per le operatrici del settore. La storia di Fabiola è una delle tante che sono arrivate a #lavoromoloesto, la campagna che L’Espresso porta avanti con Cgil Piemonte e Umbria, lanciata in occasione della giornata internazionale per l’eliminazione della violenza sulle donne, lo scorso 25 novembre.

 

«Avrebbe dovuto denunciare? Se avesse denunciato che cosa sarebbe successo?», scrive un altro utente a proposito di Lara, assistente alla poltrona in uno studio dentistico, che, il giorno dopo essere sfuggita al suo capo che, con i pantaloni abbassati, le chiedeva di fare sesso alla fine del turno, ha trovato un’altra pronta a prendere il suo posto al lavoro. Lara non ha mai denunciato e per questo si sente in colpa, soprattutto perché suppone che quanto successo a lei potrebbe essere accaduto anche ad altre lavoratrici dello stesso studio. Secondo una ricerca internazionale effettuata su un campione di oltre 60 mila lavoratori, coordinata dal Dipartimento di Psicologia dell’università Sapienza di Roma, chi ha un impiego precario è più esposto a comportamenti sessuali indesiderati e alle molestie, rispetto ai colleghi che hanno un impiego stabile. Le donne riportano di essere state oggetto di molestie sessuali con una frequenza tre volte maggiore degli uomini. In particolare, il rischio di violenza aumenta quando il precariato è associato all’imprevedibilità degli orari e al fatto che i lavoratori debbano svolgere più incarichi contemporaneamente.

 

 

«Da quando i commenti piccanti sull’altro sesso in una chat privata sono diventati reati? Smettetela con questo politicamente corretto. Non se ne può più!», commenta un utente per entrare nel dibattito che si è aperto sul web dopo la pubblicazione delle storie di Cristina e Angelica, impiegate in due grandi aziende, che hanno raccontato di sentirsi trattate come oggetti sul posto di lavoro, perché donne. Ad Angelica i superiori chiedevano, ogni volta che i dirigenti da Roma e Milano venivano in visita, di vestirsi in modo consono, cioè di mettersi la minigonna. Alla scadenza del contratto ha cambiato lavoro.

 

Cristina, invece, ogni volta che si alza dalla scrivania, deve sopportare risatine, mormorii, battutine a sfondo sessuale. Un continuo chiacchiericcio alle spalle che la fa sentire inadeguata e rende le ore pesanti. Un giorno è venuta a sapere che colleghi e superiori, nei momenti liberi sul posto di lavoro, organizzano dei veri e propri contest: «Chi ha le chiappe più belle?, Chi il seno più grande? Chi accende maggiormente la tua energia sessuale?». Una classifica a punti in cui le donne diventano cose da valutare asetticamente, di nascosto, per fare quattro risate e spezzare la routine. Non episodi di violenza fisica chiaramente circoscrivili ma molestie che, come è scritto nella Convenzione numero190 dell’Ilo, l’organizzazione internazionale del lavoro, sono pratiche e comportamenti inaccettabili, ma anche la minaccia di porli in essere, che possono comportare danni fisici, psicologici, sessuali o economici, e includono la violenza e le molestie di genere.

 

La Convenzione è del 2019. A fine dello scorso ottobre l’Italia ha concluso il processo di ratifica, il secondo Paese in Europa dopo la Grecia. Come spiega Raffaele Fabozzi, professore di Diritto del lavoro all’università Luiss, «il nostro ordinamento giuridico è certamente evoluto ma manca una legge specifica sulle molestie in ambito lavorativo. La Convenzione sulla violenza e le molestie nel mondo del lavoro costituisce una tappa fondamentale nel percorso di tutela dei lavoratori, in un’ottica sempre più inclusiva e senza distinzione di genere. Con la sua ratifica, l’Italia ha assunto l’obbligo di emanare una serie di norme volte a prevenire e sanzionare le diverse forme di molestie nei luoghi di lavoro, realizzando la piena tutela dell’integrità fisica, psicologica, sessuale ed economica della persona. È auspicabile che si dia quanto prima concreta attuazione ai contenuti della Convenzione».

 

Nel frattempo, l’Italia resta un Paese difficile per le donne che vogliono lavorare. È uno dei peggiori d’Europa per l’occupazione femminile, circa la metà delle donne lavora (l’altra metà no). Le lavoratrici spesso svolgono mansioni per cui sarebbe sufficiente un titolo di studio più basso di quello che possiedono, sono sottorappresentate nelle posizioni apicali, percepiscono stipendi e pensioni più basse rispetto agli uomini e, non solo hanno più probabilità di subire molestie, ma anche di essere costrette a lasciare l’occupazione per evitarle. Per l’Istat sono un milione e 404 mila le donne che hanno subito aggressioni fisiche o ricatti sessuali sul posto di lavoro, nel corso della loro vita. Secondo un’indagine realizzata da WeWorld, onlus che si batte per garantire i diritti delle comunità più vulnerabili, in collaborazione con Ipsos, il 66 per cento delle intervistate ha detto di aver subito almeno un comportamento molesto (non solo fisico) in azienda, ufficio, fabbrica. Due donne su dieci hanno ricevuto battute o offese legate al proprio genere, una su quattro richieste insistenti sulle proprie relazioni personali. Quasi tre lavoratrici su dieci, il 27 per cento, dichiarano di aver ricevuto domande circa la volontà di sposarsi oppure di fare figli durante un colloquio per una nuova occupazione.

 

La discriminazione nei confronti di donne che hanno scelto di diventare madri è anche al centro delle tante storie che sono arrivate a #lavoromolesto, spazio anonimo di denuncia ideato con l’obiettivo di dare voce a chi subisce violenza sul luogo di lavoro. A Maria è stato chiesto di nascondere la gioia e la pancia che cresceva, quando ha saputo di essere incinta, per non innervosire i capi prima del tempo, Anna è stata licenziata al rientro dalla maternità, D. demansionata. Comportamenti che testimoniano come il mercato del lavoro sia pervaso da stereotipi e aspettative di genere che influenzano la partecipazione e la carriera delle donne, retaggi del sistema patriarcale.

 

«Le violenze sulle donne non sono un’emergenza ma un problema strutturale». Così Marco Chiesara, presidente di WeWorld, ha commentato i risultati dell’indagine che mostra anche come, in alcuni casi, a mancare siano proprio gli strumenti culturali indispensabili a riconoscere le molestie, sia per i maltrattati che per i maltrattanti.

 

Le testimonianze che tante lavoratrici stanno inviando a #lavoromolesto e le reazioni di alcuni lettori alle loro storie, sono le conseguenze degli strascichi di una società maschilista che ancora oggi resiste. Ma che sta perdendo forza. Infatti, la maggior parte delle discussioni che ha seguito la pubblicazione delle denunce (anonime, con nomi di fantasia), così come la voglia di tante donne di raccontare, muovono in una direzione diversa. Il desiderio di rompere il silenzio e stravolgere le abitudini secondo cui fare battute a sfondo sessuale a una collega è solo un modo goliardico per attirare la sua attenzione, commentare in pubblico le parti intime è come farle un complimento.

 

Comportamenti che, tra i casi peggiori, portano l’uomo a credere che la donna sia dipendente dalla sua volontà, lusingata se trascinata verso rapporti fisici e sessuali per cui non hai mai manifestato il mimino interesse. Grazie alla forza di tante che hanno deciso di condividere le loro esperienze, la campagna #lavoromolesto sta provando a raggiungere l’obiettivo per cui è stata pensata: contribuire alla formazione di una normalità diversa in cui la donna non è più vittima ma portavoce di una società consapevole e inclusiva.