Il 10 ottobre di ogni anno psicologi e psichiatri, associazioni e aziende, riempiono le agende con convegni, pubblicazioni di rapporti, incontri. Anche in Italia la Giornata mondiale della salute mentale desta l’attenzione dei media e della politica, soprattutto dopo la pandemia. Lo slogan più gettonato è: «Non c’è salute senza salute mentale». Difficilmente, però, sentiremo dire che non c’è salute mentale senza assunzione di personale.
«Abbiamo bisogno di persone formate che siano motivate a lavorare in questo settore e abbiano il tempo sufficiente per poterlo fare, perché se fuori dalla porta c’è una coda di venti persone, sarà impossibile conoscere in dettaglio le storie dei singoli pazienti».
Fabrizio Starace è uno psichiatra, dirige il Dipartimento di salute mentale di Modena e presiede la terza sezione del Consiglio superiore di Sanità. Ha fatto un calcolo: come minimo, ai servizi che la nostra sanità pubblica dedica a chi ha un disagio mentale mancano 4.600 operatori, tra psichiatri, psicologi, infermieri, educatori e altre figure. È una sottostima: il conto è eseguito sulla base degli standard definiti nel 1999 dal Progetto obiettivo salute mentale, documento ufficiale nel quale è scritto che dovremmo avere un operatore ogni 1.500 abitanti. Stando agli ultimi dati del ministero della Salute ce ne sono 28.807 ma ne dovrebbero essere all’incirca 33.400, e questo secondo gli standard di 23 anni fa. Con questi numeri, secondo un’altra stima di Starace e della Siep (Società italiana di epidemiologia psichiatrica), è possibile offrire una risposta adeguata solo a poco più della metà delle persone con problemi psicologici o psichiatrici. A farne le spese sono soprattutto i centri territoriali. L’effetto si ripercuote sulle famiglie.
«A Cagliari città ci sono tre centri di salute mentale, ma nel sud della Sardegna ci sono luoghi dove le persone devono percorrere chilometri per raggiungere il primo servizio disponibile». A raccontare questa storia sarda di accorpamenti e scelte politiche è Gisella Trincas, presidente di Unasam, Unione nazionale delle associazioni per la salute mentale, che riunisce le associazioni dei famigliari dei pazienti. Ventisette anni fa per sua sorella ha fondato insieme ad altri Casamatta, una piccola comunità dove abitano sette persone con problemi di salute mentale, in un condominio a Cagliari centro.
Guardando al numero degli operatori, alcune regioni sono messe molto peggio. «Nell’ordine sono la Basilicata, l’Abruzzo, e la Calabria e l’Umbria a pari merito; la Basilicata rispetto al valore nazionale, già inferiore a quello che dovrebbe essere, ne ha il 50 per cento in meno», spiega Starace. La parte alta della classifica è invece tutta sbilanciata dalla Toscana in su. E i divari regionali esistono anche per le attività delle associazioni e dei volontari. Lo conferma Stefano Cecconi, del Coordinamento nazionale per la salute mentale, nel quale confluiscono oltre un centinaio di associazioni varie: «C’è un gap tra nord e sud molto forte come in tutto il resto del terzo settore».
Ma possiamo sapere se le persone stanno meglio dopo essere state in cura presso i Dipartimenti di salute mentale italiani? Starace risponde seccamente di no: «Non ci sono indicatori di esito raccolti di routine dal sistema informativo nazionale». E servono risorse umane anche per la continuità assistenziale: solo una persona su quattro dimessa dopo un ricovero per motivi psichiatrici viene vista dai servizi territoriali entro 30 giorni. L’inefficienza è certamente un problema di soldi ma non solo, ha un aspetto marcatamente politico, di scelte. In vista dell’ultima tornata elettorale, alcune associazioni lombarde hanno scritto una lettera aperta ai partiti politici. Uno dei firmatari è Paolo Macchia, presidente della Rete utenti salute mentale Lombardia. Si occupa anche di supporto tra pari, aiutando chi ancora deve compiere certi passi nel suo percorso di terapia. «L’alchimia che si genera tra due persone che hanno un vissuto simile innesca un meccanismo di fiducia e speranza». Paolo Macchia e la sua associazione vogliono espandere la propria rete a livello nazionale e ha visto negli ultimi tempi una maggiore apertura al dialogo, a partire dallo stesso ministero.
Tuttavia, i programmi elettorali dei partiti per le ultime elezioni prevedevano poco o niente e senza mai indicare le coperture necessarie. A parte lo psicologo di base, declinato in varie forme. Di fatto, se il quadro dei servizi offerti ai pazienti psichiatrici è allarmante, quello dell’intervento pubblico destinato al benessere psicologico dei cittadini e alla prevenzione è ancora peggio. «Gli psicologi di base potrebbero svolgere una funzione di salute pubblica molto importante, anche per correggere alcune deformazioni del sistema attuale, nel quale la psicoterapia è presente solo nel mercato privato», dice Matteo Bessone, psicoterapeuta e co-fondatore dello Sportello TiAscolto. Presente a Torino, Milano, Bolzano, Lecce e Bologna, si rivolge a bambini, adolescenti e adulti, proponendo psicoterapia a prezzi calmierati e interventi sul territorio: «Sempre più spesso veniamo sfacciatamente contattati da alcune Asl che ci chiedono se possiamo fare il lavoro al posto loro».