Il cantante virtuale da 10 milioni di follower e 600 mila ascolti mensili era sotto contratto della Capitol Records. «Essere neri nello spazio pubblico significa essere usati ma esclusi»: Industry Blackout vince la battaglia

Dreadlock verdi, denti d’oro e catena al collo, Fn Meka è l’immagine riconoscibile e stereotipata del rapper di strada. Con oltre 10 milioni di follower su TikTok e 600 mila ascolti mensili su Spotify ha attirato l’attenzione di una delle etichette discografiche più importanti di sempre, Capitol Records, nonostante non esista davvero. È il primo di quella che si prospetta una lunga serie di artisti virtuali, realizzati attraverso la realtà aumentata e l’intelligenza artificiale (Ai). Non solo un fenomeno social, ma un robot rapper in grado di guadagnare milioni di dollari. Nulla a che vedere con mosse di marketing già note, come quella dei Gorillaz, storico gruppo britannico che dal 1998 appare solo attraverso i fumetti-avatar del co-fondatore Jamie Hewlett: Fn Meka è un progetto che mira a creare una star intangibile, un artista non umano. Oltrepassa l’idea di anonimato funzionale all’arte, portandone in secondo piano gli autori, al tempo stesso finalizza un processo già iniziato da celebri cantanti come Travis Scott e Ariana Grande, che nel 2021 sono stati protagonisti di spettacoli in spazi globali e digitali, come la piattaforma di gioco online Fortnite.

 

Fn Meka rientra nella scia di esperimenti nell’arte il cui esempio più sorprendente nelle ultime settimane è stato il quadro “Théâtre d’opéra spatial”, prima opera creata con un software (Midjourney) a ricevere un riconoscimento nel panorama espositivo. In entrambi i casi l’intelligenza artificiale rimane ancora uno strumento in mani umane, programmabile e in attesa di istruzioni. Non è una questione di “morte dell’arte” ma di nuove tecniche. A rendere il robot rapper problematico rispetto ad altre opere digitali è invece il fattore culturale dietro la sua creazione, poiché si inserisce nell’abitudine produttiva statunitense che, dal blackface ottocentesco in poi, sfrutta l’esperienza afroamericana per trarre ricavi nel mondo bianco dell’intrattenimento.

Fn Meka è infatti la riproduzione, nell’aspetto e nel linguaggio, di un uomo afroamericano la cui voce appartiene al rapper Kyle the Hooligan ma il cui design è stato progettato da Anthony Martini e Brandon Le, escludendo artisti neri dal processo e privando, nel caso specifico, la comunità afroamericana della possibilità di stabilire i termini della propria rappresentazione. «Non è il primo né l’ultimo di tanti episodi simili nel mondo reale: il solo fatto di esistere ed essere neri nello spazio pubblico significa essere costantemente saccheggiati senza adeguata rappresentazione e uguaglianza», afferma il collettivo statunitense Industry Blackout, contattato da L’Espresso e protagonista delle proteste che hanno portato al licenziamento di Fn Meka da parte di Capitol Records.

Sui suoi profili social Kyle the Hooligan già alla fine d’agosto aveva affermato di non aver ricevuto alcun compenso né alcuna percentuale dell’accordo con Capitol Records e quindi di essere stato derubato di una proprietà intellettuale da parte di Factory New, la società che possiede Fn Meka. Per Anthony Martini, che nel frattempo è corso ai ripari presentando scuse ufficiali attraverso il New York Times, usare un personaggio virtuale anche se culturalmente ambiguo era l’unico modo per avvicinarsi a generazioni molto giovani, che usano già gli stessi codici inconsapevolmente.

Al contrario, Industry Blackout, che si descrive come «un’organizzazione fondata da persone nere per le persone nere, con l’obiettivo della giustizia sociale in tutte le industrie», su Instagram e Twitter descrive il robot rapper come «una caricatura offensiva, un insulto diretto alla comunità nera e alla nostra cultura, un amalgama di rozzi stereotipi e manierismi appropriativi».

Sono state sufficienti alcune centinaia di like ai post del collettivo per convincere l’etichetta a rescindere l’accordo, segnando così un precedente notevole. «Il nostro scopo non è mai stata la viralità o il numero delle visualizzazioni, soltanto l’impatto e i risultati. Sono stati poi artisti come Kehlani (cantautrice da 14 milioni di follower) e i giornali di tutto il mondo a condividere il nostro messaggio, che è l’unica cosa che ci interessa», rispondono gli attivisti attraverso L’Espresso.

L’organizzazione è una piccola realtà attiva dal 2 giugno 2020, giorno diventato evento sui social per il cosiddetto #blackouttuesday – da cui il nome – in cui si chiedeva agli utenti di non postare ventiquattr’ore niente che non fosse relativo alle proteste di Black Lives Matter. Da due anni e mezzo il collettivo riceve e riporta segnalazioni di razzismo, discriminazione e sfruttamento della comunità afroamericana con particolare attenzione allo sport e all’intrattenimento, aree più esposte al rischio di appropriazione culturale. Nel caso di Fn Meka, Industry Blackout afferma che il caso di sfruttamento dell’immagine del robot rapper è un’ulteriore conferma di come alcune dinamiche di potere presenti nella società offline vengano riprodotte senza distinzioni nell’inedito spazio di incontro del Metaverso e del Web3: «È un’opportunità sprecata anche se la nostra speranza è che sia servita da lezione su cosa non fare». «Ci sono già numerosi artisti neri che si stanno facendo strada nel Metaverso e questo episodio è stato una macchia, nel complesso, che indica però un bisogno di maggiore diversificazione», continuano i portavoce.

Non esiste una soluzione immediata per rimediare a una catena di visioni e comportamenti radicati nel razzismo sistemico che invade anche i settori artistici e produttivi negli Stati Uniti, né è utile pretendere che siano i soggetti razzializzati a dover spiegare perché idee come Fn Meka risultino offensive. Lo spiega bene anche Reni Eddo-Lodge nel suo libro diventato best seller, “Perché non parlo più di razzismo con le persone bianche” (Edizioni e/o, 2021). «Non è compito nostro educare chi non fa parte della nostra cultura su come parteciparvi senza atteggiamenti predatori. È qualcosa che deve nascere da loro, devono farlo da soli altrimenti sta a noi fare presente che sono soltanto dei visitatori», ribadisce Industry Blackout.

L’obiettivo, anche per chi guarda a questa vicenda dall’altra parte dell’oceano, è auto-istruirsi, riprendendo l’imperativo dell’educate yourself spesso ripetuto negli ambienti di attivismo culturale. A questo dovere civile fa riferimento anche il necessario ripensamento, secondo Industry Blackout, di un linguaggio che come quello della scena musicale nera continua a essere sfruttato dietro le quinte dai vertici aziendali, aggiungendo un nuovo capitolo alla cosiddetta tradizione dei Race Records: musica nera, guadagni bianchi.