Sono associazioni di mutuo soccorso, presidi antimafia, movimenti e gruppi di base. Nati dal basso per affrontare una crisi durissima, colmano il vuoto lasciato da partiti e istituzioni

La lettera dell’A2a è stata aperta e appesa all’anta del frigorifero. Presto o tardi Luca Federici dovrà decidersi a pagarla, quella bolletta del gas «aumentata del mille per cento» dice. Non è tipo da farsi intimidire da una fattura esponenzialmente più cara del solito: ha affrontato ben altro negli ultimi nove anni. «La mia forza, la nostra forza sono le persone che entrano in fabbrica per studiare il modello dell’autogestione, per conoscerci, per parlare con noi, per costruire insieme un mondo diverso. La nostra forza sono quei giovani che se non fossero approdati qui, sarebbero finiti al soldo della criminalità organizzata; sono quei cinquantenni disoccupati da tanto, troppo tempo, che qui hanno trovato gli strumenti per rimettersi in discussione».

 

No, Luca non è un pazzo visionario, è il presidente di Ri-Maflow, società operaia di mutuo soccorso nata dall’occupazione della fabbrica metalmeccanica Maflow di Trezzano sul Naviglio, sud ovest di Milano. Producevano i condizionatori delle Bmw, mentre oggi sono artigiani, fabbri, carpentieri, falegnami, idraulici, elettricisti, esperti di logistica, produttori di alcolici e distributori di prodotti ortofrutticoli. Quando nel 2009 si scatenò la crisi finanziaria, il proprietario impose la chiusura della Maflow a cui le tute blu si opposero occupando i capannoni. Si opposero allo sfollamento e preservarono i macchinari dal degrado. Diedero così vita alla Ri-Maflow a una cooperativa che, oltre a dare lavoro a cinquanta operai, oggi è un movimento di contrasto all’abbandono scolastico, un luogo ospitale verso quei minori che hanno già avuto qualche guaio con la legge, un presidio antifascista e contro la ’ndrangheta, che in questo territorio ha tentacoli micidiali: «Perché l’antimafia non si fa solo con le leggi, ma anche sviluppando progetti sani e dando lavoro dignitoso laddove le mafie insistono di più», racconta il presidente Luca Federici.

Realtà come la sua rappresentano oggi l’unico argine al tracollo sociale di fragili e poveri, dimenticati dalle istituzioni e dalla politica che, al più, ha saputo lanciare agli ultimi gli spiccioli del Reddito di cittadinanza, minacciando però di riprenderseli. «E quindi sì, la bolletta del gas fa paura a me e agli altri colleghi della Ri-Maflow, ma finché ci sarà una rete sociale su cui contare, noi resistiamo, come i partigiani», il messaggio di Luca viene riassunto nel titolo del rapporto “La Pienezza del Vuoto” realizzato dalla Scuola Superiore Universitaria Gran Sasso Science Institute dell’Aquila partendo dall’analisi di 91 esperienze di presidi antimafia, cooperative, associazioni, movimenti e gruppi di base che intrecciano relazioni con la Rete dei Numeri Pari e il Forum Disuguaglianze e Diversità, co-autori dell’indagine e che esprimono il punto di vista di oltre seicento realtà a diretto contatto con i territori. Una miriade di associazioni che galleggia nell’indifferenza: «Qui le istituzioni non vengono, non ci vengono i politici, ma neppure i sindacati. Eppure noi lo vorremmo un rapporto con i sindacati, perché ci sentiamo ancora operai e siamo una forma di resistenza all’impoverimento e alla precarizzazione», spiega Luca Federici.

 

Il report dimostra che queste associazioni riempiono il “vuoto” lasciato dalle istituzioni, dalla politica, dall’imprenditore di turno fuggito con i profitti all’estero, evitando che a colmarlo sia la mafia o il degrado, specialmente al Sud. Lo fanno offrendo alla popolazione gli strumenti per trovare lavoro, ma anche dando cultura ed educazione, servizi essenziali e informazioni. Per il 78 per cento delle realtà intervistate il nodo cruciale è la partecipazione, l’essere coinvolti in progetti di giustizia sociale e ambientale, perché «la partecipazione dal basso colma la latenza, se non l’assenza delle istituzioni», dice il report.

Tangibile lo scollamento con la politica, specialmente con la sinistra, che ha sempre dato per scontato il loro sostegno nell’urna. Lo spiega bene Giuseppe De Marzo, coordinatore della Rete dei Numeri Pari: «La politica e i gruppi dirigenti attuali, in particolar modo del centro sinistra, da cui ci aspettavamo un atteggiamento diverso se non altro per la loro storia, non si sono nemmeno accorti di quanto grave è la situazione. La recessione cominciata nel 2009, la pandemia e la crisi energetica stanno impoverendo la maggioranza del paese e, in assenza di politiche redistributive e di un cambiamento nelle politiche economiche e fiscali, imbocca l’unica strada percorribile: collaborare, essere solidali e praticare il mutuo aiuto. Sono moltissime le persone che gravitano attorno a questo mondo, eppure in questa campagna elettorale il centro sinistra non ha neppure voluto parlare con noi. Per essere chiari, siamo stati contattati da Giuseppe Conte, mentre Enrico Letta e Nicola Fratoianni non hanno neppure risposto ai nostri messaggi. Parlano di voler salvare le periferie, ma poi non escono mai dal centro: forse è per questo che il 56 per cento dei poveri non è andato a votare? Sarà per questo che l’altra metà dei poveri, quella che a votare c’è andata, si è schierata contro l’agenda Draghi? Il rischio, ora, è che la rabbia sociale venga canalizzata dalle destre». A impedirlo c’è appunto l’argine del mutualismo e la speranza che «queste nostre esperienze si trasformino al più presto in politica sul campo. Del resto le casse di mutuo soccorso dell’Ottocento hanno dato vita al sindacato e al partito socialista, una storia che potrebbe ripetersi», preannuncia De Marzo.

 

La pandemia e la recente crisi energetica hanno fatto emergere nuove disuguaglianze che le istituzioni non sanno combattere e spesso, quando ci si mettono, «ostacolano persino i tentativi di salvataggio messi in atto dal territorio. C’è una diffusa percezione di negligenza e lentezza da parte delle istituzioni nel rispondere ai bisogni fondamentali, e più in generale una mancanza di risorse adeguate, sia in termini di politiche di welfare che dal punto di vista dell’ascolto», si legge nel report.

 

Anche il modo in cui è stato impostato il Pnrr, il piano di ripresa e resilienza che entro il 2026 stanzierà 220 miliardi per rimettere sui giusti binari il paese, è stato accolto con amarezza da parte di chi lavora sui territori: «È stato calato dall’alto. E con un modello siffatto contano soprattutto le potenti lobby romane, mentre il nostro punto di vista non è stato nemmeno preso in considerazione», argomenta Salvatore Cacciola, presidente delle Fattorie Sociali siciliane e nazionali, un variegato gruppo di 120 cooperative legate alla terra che si estende da Bergamo a Palermo e che ha fatto della resilienza il proprio punto di forza: «In un territorio come la Sicilia, dove in media muore un’azienda ogni cinque, noi abbiamo un tasso di mortalità del due per cento. E allora, se siamo più resilienti degli altri, perché i politici non studiano il nostro modello? Perché quando hanno scritto il Pnrr non ci hanno interpellato? Siamo profondamente insoddisfatti dalle politiche sociali dell’agenda Draghi, che ha messo il dialogo con i soggetti del terzo settore in ultima fila».

 

Le Fattorie Sociali nascono per combattere la mafia, lo sfruttamento, il caporalato e si ispirano ai principi della sostenibilità ambientale e sociale: «Applichiamo un’agricoltura biologica e solidale per il reinserimento lavorativo, l’inclusione sociale e la riabilitazione, per lo sviluppo territoriale e il benessere della comunità», racconta Cacciola. Le Fattorie Sociali, così come gran parte delle realtà analizzate dal report, sperimentano nuovi modelli sostenibili di welfare, dove l’investimento pubblico si sposa con il privato sociale per offrire lavori dignitosi e servizi, ma anche cultura e informazioni per affrontare il degrado. Come sa fare l’associazione culturale romana Colibrì che al quartiere Garbatella porta un laboratorio di teatro sociale gratuito per ragazzi: «La Garbatella è a due passi dal centro, ma continua ad essere un quartiere popolare, con tassi di dispersione scolastica molto alti e un ritorno di fenomeni che sembravano scomparsi, come lo spaccio e la delinquenza», racconta Federica Novelli, fondatrice dell’associazione, nata nel 2014.

I ragazzi dell’associazione scrivono e mettono in scena spettacoli sulla storia di Peppino Impastato, sull’attivista brasiliana Marielle Franco, su Stefano Cucchi, e poi ancora sul tema della violenza sulle donne, l’identità di genere, la non violenza, il bullismo, l’accoglienza. «Cerchiamo un approccio creativo alla vita adolescenziale e scegliamo con i ragazzi tematiche che possano farli crescere a livello di coscienza civile e assumere maggiore fiducia in se stessi». Nonostante i buoni risultati, la sopravvivenza dell’associazione è legata alla buona volontà dei fondatori: «Per noi è puro impegno sociale, anche se diventa sempre più complicato portare avanti questa attività perché siamo sempre più esclusi dalle istituzioni. Ma resistiamo, lo dobbiamo fare per i ragazzi, perché continuino ad avere uno spazio dove confrontarsi, ragionare, mettersi alla prova», dice Novelli. Resistono, come lo facevano i partigiani, offrendo una risposta alternativa alla dinamica autoritaria in atto.