L’ennesimo salasso
Il "capolavoro" italiano della liberalizzazione di luce e gas: siamo l'unico caso in cui le bollette costeranno di più
Il nostro Paese è l'unico in Europa in cui i costi per le famiglie aumenteranno. Anche perché gravano sulle tariffe la moltiplicazione dei posti di sottogoverno e i sussidi pubblici
Il primo paradosso della liberalizzazione del mercato elettrico è che da una società pubblica, l’Enel, ora ne abbiamo sette. L’Enel stessa, rimasta sotto il controllo dell’azionista statale, più Terna (per la rete), più il Gestore del mercato elettrico (Gse), più l’Acquirente unico, più la Borsa elettrica (Gme), più la Ricerca sul sistema energetico (Rse), più la Sogin. Senza contare l’Arera, ossia l’autorità che dovrebbe regolare questo curioso mercato. E fanno otto. A tutto vantaggio, innanzitutto, della politica che ha più posti da distribuire a sodali, amici e trombati alle elezioni.
Il secondo paradosso, decisamente più rilevante, è che ci farà vedere i sorci verdi. Perché si tratta dell’unica liberalizzazione, assieme a quella del gas, che anziché far diminuire le tariffe le fa aumentare. Mandandole letteralmente in orbita. Mentre a dicembre le tariffe del mercato elettrico di maggior tutela, ossia quelle cui possono accedere le fasce deboli della popolazione, sono rincarate del 37 per cento rispetto al livello precedente alla pandemia del 2020, quelle del mercato libero sono schizzate su del 103 per cento. Dati Istat. Un’altra bella tosatura a quasi 9 milioni di famiglie, che dal primo luglio dovranno passare al mercato libero scegliendo un fornitore. Chi non lo fa, se lo vedrà appioppato come il difensore d’ufficio a chi non ha avvocato di fiducia.
L’Arera, autorità presieduta da Stefano Besseghini, nominato cinque anni e mezzo fa dal primo governo di Giuseppe Conte, quello dell’alleanza fra grillini e leghisti, ha concesso ancora tre mesi di respiro, dato che l’obbligo doveva scattare dal primo aprile. Data che avrebbe aggiunto però una punta di sarcasmo alla beffa che si prepara. Ma soprattutto il primo luglio le elezioni europee, dove la destra al governo conta di fare il pieno, saranno già passate. Senza i possibili danni al consenso causati da rincari astronomici delle bollette: evidentemente lor signori sono coscienti del rischio.
Tutto comincia con una direttiva europea del dicembre 1996, approvata da tutti i 15 Stati membri dell’epoca. Anche l’energia elettrica, decidono a Bruxelles, va liberalizzata. Servizi migliori e meno cari, evviva. In Italia l’operazione parte addirittura in anticipo. Ma non perché il governo tecnico di Lamberto Dini abbia la palla di vetro. Le privatizzazioni incombono, e la compagnia energetica statale Eni allora guidata da Franco Bernabè sta per essere collocata in Borsa. Urge avere un’autorità indipendente per l’energia, che nasce a metà novembre 1995.
Il vero salto di qualità però è del 1999. Il centrosinistra è al governo, il primo con a capo un ex comunista. È Massimo D’Alema. E per un altro dei tanti paradossi di questa storia tocca proprio agli ex comunisti privatizzare e liberalizzare. Il ministro che gestisce la partita è Pier Luigi Bersani. Ex consigliere regionale del Pci, è stato presidente della Regione Emilia-Romagna ed è ministro dell’Industria. Il suo decreto, che recepisce la direttiva europea, dovrebbe chiudere l’epoca del monopolio dell’elettricità inaugurato nel 1962 con la nascita dell’Enel e la nazionalizzazione di 1.270 produttori privati in tutta Italia.
Allora c’era il boom economico e la statalizzazione dell’energia elettrica, sostenuta anche da molti avversari dello statalismo, fra cui Il Mondo di Mario Pannunzio ed Ernesto Rossi, era considerata vitale per assicurare l’energia necessaria ad accompagnare la crescita del Paese. Trentasette anni dopo lo scenario dei servizi pubblici, con il mercato unico europeo, è completamente cambiato: al centro ci sono i consumatori.
Bersani è convinto che la liberalizzazione, innescando la concorrenza, finisca per favorirli. «Sono anche disposto a definire di sinistra cose che una volta di sinistra non erano. Liberalizzare è di sinistra», avrà modo di dire. La mossa fondamentale è lo spacchettamento dell’Enel, che nel frattempo si sta quotando anch’essa in Borsa. Vendere centrali ai privati metterà in pista nuovi soggetti in grado di offrire energia meno cara agli utenti che finalmente potranno scegliere. Proprio come succede con i telefoni.
Ma qui le cose sono molto diverse. Nella telefonia non esistono sussidi pubblici, che invece nel settore dell’energia sono molti, pesanti e si moltiplicano. Già all’inizio degli anni Novanta una delibera interministeriale famosa come Cip 6 dà incentivi pubblici a chi produce energie rinnovabili. È una conseguenza politica della chiusura delle centrali nucleari, che costringe anche i contribuenti a pagare indennizzi salatissimi all’Enel e alle imprese estromesse dall’affare dell’energia atomica. Con uno strascico micidiale che ci portiamo ancora dietro a 37 anni di distanza dal referendum del 1987. Ovvero i circa 300 milioni l’anno che gli utenti pagano per mantenere in vita la Sogin, società pubblica nata da una costola dell’Enel per provvedere allo smaltimento delle scorie radioattive.
La delibera Cip 6 è del 29 aprile 1992: ultimo governo, ormai esanime, di Giulio Andreotti. Tangentopoli è agli albori, si sta per aprire la stagione delle stragi mafiose e la crisi della cosiddetta Prima Repubblica. E quella decisione finisce per favorire anche gli speculatori, garantendo sussidi perfino agli impianti privati ancora esistenti che producono elettricità con gli scarti delle raffinerie, con il carbone o con i rifiuti.
Da lì al grande affare del fotovoltaico e dell’eolico il passo è breve. Nel primo decennio del Duemila siamo ancora parecchio indietro dagli obiettivi ambientali e bisogna dare una spinta seria a quelle fonti. Gli incentivi pubblici pagati sulle bollette sono mostruosi e si assiste a una frenesia senza precedenti. Fioccano i miliardi (almeno 11 l’anno) e come sempre in Italia quando ballano soldi pubblici fioccano anche le truffe, con impianti sovvenzionati anche se non producono un chilovattora. Ufficiale pagatore è il Gse, al cui vertice il governo di Giorgia Meloni ha piazzato l’ex parlamentare leghista non rieletto Paolo Arrigoni.
Non bastasse, ci siamo inventati anche il cosiddetto capacity market per tenere in vita impianti non sostenibili ma chiudendo i quali si potrebbe rischiare un blackout come quello del settembre 2003 che lasciò tutta Italia al buio per un giorno intero.
La verità è che il sistema elettrico italiano è talmente sussidiato (ci sono ancora contributi per le ferrovie) che il rapporto fra i costi regolati e quello esposto a una effettiva concorrenza è di 60 a 40. E i sussidi sono destinati ad aumentare ancora, per esempio con gli incentivi alle cosiddette comunità energetiche. Certo chiamarlo «mercato libero» è una discreta forzatura.
Per capire meglio quale può essere l’impatto dei sussidi e dei costi fissi in una situazione simile, valga l’esempio del gas. Dopo il trauma della guerra in Ucraina si è avviato un percorso che dovrebbe far scendere il consumo da 70 a 50 miliardi di metri cubi annui entro il 2030. Ma i gasdotti non saranno smantellati e qualcuno dovrà coprirne i costi. Se le imprese distributrici di metano vorranno mantenere i medesimi profitti non avranno altra scelta che aumentare le tariffe. Ed è quello che accadrà.
Il che tuttavia non scoraggia la proliferazione degli operatori più vari. Sarebbero addirittura 800. Pochissimi producono, quasi tutti solo comprano e vendono. E magari offrono pacchetti con l’installazione di pompe di calore o caldaie più moderne e via dicendo. Tutti convinti di fare in qualche modo soldi a palate approfittando dell’obbligo di abbandonare la tutela energetica imposto a milioni di famiglie. Per dare un’idea della follia che si è scatenata in Italia, nel Regno Unito gli operatori del mercato elettrico libero si contano forse sulle dita di due mani. E le liberalizzazioni, di là dalla Manica, le fanno davvero.
Del resto se all’inizio del 2023 anche l’Enel, ancor prima dell’arrivo dell’attuale amministratore delegato Flavio Cattaneo, ha previsto una crescita spettacolare dei margini dal mercato libero vorrà pur dire qualcosa. Ma dice ancor di più la circostanza che delle centinaia di offerte presenti nel sito dell’Arera quelle al di sotto delle tariffe del mercato tutelato, che comunque garantiscono pur sempre profitto, sono due o tre. Una simulazione pubblicata dal sito contropiede.eu dimostra che passando dalla maggiore tutela al mercato libero con il medesimo fornitore un nucleo familiare milanese di due persone subirebbe rincari del 41,16 per cento per il gas e addirittura dell’83,62 per l’elettricità. Buona fortuna.