Ben prima del fascismo nell’Agro Pontino, subito dopo l’Unità, l’Associazione generale degli operai di Ravenna prese in subappalto il drenaggio delle terre paludose martoriate dalla malaria nel delta del Tevere. Fu l’impresa degli scariolanti la cui memoria sopravvive fino a oggi

La mia famiglia ha scelto di chiamarmi così perché sono nato poco dopo la rivoluzione russa del 1917». Vladimiro Melandri ha 89 anni e la memoria di Lenin, suo omonimo, e il cruccio dei genitori per il bolscevismo gli accendono in volto una risata. È chino su delle foto in bianco e nero, sparpagliate sul tavolo della sala da pranzo. Le osserva attentamente alla ricerca delle sue origini, indicando le sagome degli antenati che fecero la storia di Ostia. «Ostia antica!», precisa, forzando la voce sull’aggettivo che distingue la striscia sabbiosa a sud della Capitale dalle poco distanti fortificazioni medievali che racchiudono il borgo.

«Questo è il mio bisnonno Achille. È nato nel 1853 ed è partito da Ravenna nel 1884 per bonificare il litorale romano». Perché le zone di Ostia, Fiumicino e Maccarese erano terre paludose, martoriate dalla malaria, lasciate allo stato brado dalla corte papalina o da grandi tenutari come le famiglie Chigi e Aldobrandini. E percorse da lavoratori stagionali che dormivano dentro delle capanne. Fu il Parlamento del neonato Stato italiano a decidere cosa fare. «Garibaldi ne parlò alla Camera nel 1875. E tre anni dopo il Governo si pronunciò a favore», dice Melandri.

Chi avrebbe portato a termine un’impresa del genere? I braccianti e i contadini che nel corso del XIX secolo avevano trasformato con le loro mani il suolo melmoso della Romagna in frutteti rigogliosi, arginando con vanghe e carriole il potere delle acque. L’attuale toponomastica di Ostia antica è un inno alle radici ravennati: il Parco, appunto, dei ravennati, il Viale dei romagnoli e il centro anziani “Lo scariolante”.

Erano soprattutto anarchici e socialisti, legati ideologicamente al partito socialista rivoluzionario di Romagna (che poi cambierà denominazione geografica assumendo un ruolo unificante nell’Italia appena concepita). L’Associazione generale operai braccianti di Ravenna prese in subappalto i lavori di bonifica sulle rive laziali. Era presieduta dal socialista Nullo Baldini, per controbattere alle imposizioni del padronato fondiario. Un’organizzazione mutualistica, incubatrice del sindacato e della terza via emiliano-romagnola all’economia. L’Associazione si era prefissata un duplice scopo: dimostrare le capacità dell’autogestione operaia nel dare risposte alle masse di disoccupati che inondavano le campagne. Ed edificare un modello di società esemplare, basato sul collettivismo. Andrea Costa, il primo deputato socialista della storia italiana, andò a salutare di persona i 440 “scariolanti” e le 50 “azdore”, donne alfabetizzate, dedite alla cura quotidiana della colonia, alla stazione di Ravenna. Il treno partì il 24 novembre e giunse a destinazione il giorno dopo. Non si fermò a Roma perché il carico umano che trasportava era bollato come sovversivo e anticlericale. E arrivò direttamente a Fiumicino. «Fin dove si estendeva lo sguardo non si coglieva che grigiore [...]. Quanto all’aria, sopra la permanente nebbiolina che copriva il terreno, puzzava di decomposizione». Lo scrittore Valerio Evangelisti, da poco deceduto, ha descritto nel suo capolavoro, la trilogia de “Il sole dell’Avvenire”, gli esordi della missione. Ed è ciò che i romagnoli videro effettivamente quando misero piede in quel nuovo mondo.

 

Pane e lavoro
La bonifica terminò nel 1904. Con un numero imprecisato di morti e ingenti sacrifici. Le squadre di braccianti e azdore, intanto, si erano stabilite nel borghetto medievale, all’ombra del castello di papa Giulio II, in casupole incistate nella cinta muraria. All’entrata della rocca venne posto il busto baffuto di Andrea Costa, sovrastante un’epigrafe che celebrava la vittoria «de la novissima civiltà» sulle «zolle che l’antica civiltà seminò di ruderi ed ignavia di principi e prelati». «Pane e lavoro», è l’incipit dell’effige: socialismo o barbarie, in salsa romagnola. Tanto che i bonificatori non si tolsero il cappello nemmeno al cospetto del re, dice Melandri. Un dato su tutti affascina l’anziano. Secondo le stime di un censimento sulla popolazione, i residenti a Ostia nel 1921 erano 625. Un nucleo costituito da romagnoli, a cui si aggiunsero contadini marchigiani, ciociari, sardi e abruzzesi.

 

«Questa storia è stata dimenticata, occultata nell’immaginario dalle bonifiche fasciste dell’Agro Pontino. Tutti sono convinti che a risanare la zona fosse stato il regime. Cosa che non è», dice Simone Bucri del comitato scientifico della Cooperativa ricerca sul territorio (Crt). Fondata nel 1978 per recuperare il patrimonio storico del delta tiberino. Paolo Isaja e Maria Pia Melandri sono gli artefici del progetto: indagine antropologica sul campo e sperimentazione multimediale. Con una mole impressionante di documentari video, film, libri, mostre e celebrazioni. L’Ecomuseo del Litorale romano, inaugurato nel 1994, è la loro ennesima creazione. Un luogo della memoria in cui custodire i resti della lunga marcia dei bonificatori. Al fosso di Dragoncello, accanto agli stabili del consorzio di bonifica dove le pompe idrovore, in funzione dal 1889 - a motore elettrico dal 1915 -, convogliano l’acqua nei canali artificiali verso il mare. «Sono i primi edifici di Ostia moderna. Da qui è sorto tutto», dice Bucri.

Il volume “Pane e lavoro”, a firma di Giuseppe e Vito Lattanzi e di Paolo Isaja, è una ricostruzione erodotea delle vite che hanno lambito la palude romana, attraverso le testimonianze di chi c’era. Molti ravennati battezzavano i figli - con nomi tipo “Avanti” o “Comunardo” - sotto la lapide di Andrea Costa: un rito laico con le bandiere rosse e un bicchiere di vino versato sulla fronte dei neonati. Ogni sera ingurgitavano pillole di chinino per resistere ai morsi della malaria. O consumavano le nottate a ballare nel ricreatorio “Andrea Costa”. Costituirono la cooperativa agricola operaia, emanazione produttiva della Colonia, quella dei muratori e la cooperativa di consumo per lo spaccio delle merci. Ridistribuzione delle ricchezze e collettivizzazione delle filiere. «A noi, i romagnoli che venivano da lontano, rispetto a noi che eravamo del Lazio, ci chiamavano al furesti, i forestieri», è un commento di Rosa Clementi, trascritto in “Pane e Lavoro”. «Parlavano tutti il romagnolo, anche quelli che non erano romagnoli», disse, invece, Domenico Crostini.

Cappelletti in brodo
Franco Tarroni è cresciuto ascoltando queste storie. Ha 82 anni e ha una passione per il gioco delle bocce. Ostia antica è la sua casa. «Qua ci sono gli eredi dei romagnoli, di là quelli dei marchigiani», dice mostrando le palazzine a schiera, frutto delle lottizzazioni dei terreni della cooperativa che negli anni ’50 del secolo scorso chiuse i battenti. È figlio di Giovanni, detto Cinet («piccoletto» in uno storpiato dialetto romagnolo), e di Marina Benini, trapiantata sul litorale romano nel 1902 quando era ancora in fasce. Una lavoratrice instancabile per cui il socialismo era un progressivo processo di emancipazione.

Il fascismo cambiò tutto, dice Tarroni. La cooperativa aderì al regime con forti malumori. Durante le sfilate delle camicie nere, Cinet e altri compagni venivano rinchiusi nelle carceri di Regina Coeli. Oppure erano guardati a vista, sorvegliati dai carabinieri in un «luogo del controllo». «Io penso che il fascismo fu peggio del periodo della malaria forte per gli abitanti de qui», disse Benini alla triade di ricercatori di “Pane e lavoro”. Gli squadristi pattugliavano le case alla ricerca delle vestigia della sinistra: quadri di Matteotti, falce e martello e vessilli di partito. Anche una lanterna rossa provocava lo sdegno delle milizie. Ma gli ideali di un tempo non scomparirono. Cinet era un convinto comunista. La sezione che fu del Pci e oggi del Partito democratico fu donata al movimento di Togliatti dal vecchio Tarroni. “Cinet” è il nome del circolo. «Una volta, organizzammo addirittura la festa dell’Unità nella nostra vecchia casa», dice Franco Tarroni.

 

Vilma Ori, invece, non ha mai rescisso il suo legame con Villanova di Bagnacavallo, in provincia di Ravenna. Lì ha trascorso metà della sua esistenza. Il padre romagnolo e la madre romana. Ori ha girato il mondo ma, ogni anno, trova il tempo per andare a trovare le amiche di sempre lungo le sponde del fiume Lamone. Vive a Ostia antica e i cappelletti in brodo sono la sua specialità. Anche Tarroni e Melandri ne hanno delle scorte in dispensa. «Abbiamo fatto 70mila cappelletti per la festa dell’Unità di quest’anno. Noi vecchi ancora li facciamo. Una catena di montaggio in sezione. Togliamo tutto da mezzo e impastiamo sul tavolo. C’è chi taglia, chi riempie e chi chiude», racconta. «Le nuove generazioni, però, hanno perso il legame con il passato». Giovanni Zannola, però, la pensa diversamente. Non vanta origini romagnole. È un giovane consigliere comunale di Roma, nelle fila del Pd di Ostia antica. «Da loro ho imparato che la militanza politica ha senso solo se inquadrata in una visione collettiva del futuro. Ci vuole dedizione alla causa. Come chi, tanto tempo fa, ha reso una terra insalubre, un luogo meraviglioso dove abitare, per sé e per gli altri», dice mostrando felice una busta di cappelletti congelati, tirata fuori dal freezer del circolo “Cinet”.