Nell’autunno del 1944 i nazisti uccisero 775 persone. L’eccidio è considerato un crimine contro l’umanità. Udo Surer, figlio di un militare tedesco, ha scoperto che era nel battaglione responsabile della strage. E ora continua a visitare quei luoghi della memoria

Il 17 aprile 2002 due presidenti si incontrarono sotto le querce del Parco di Monte Sole. Carlo Azeglio Ciampi e Johannes Rau, in rappresentanza di Italia e Germania, presero la parola di fronte ai superstiti e ai familiari delle vittime del massacro nazista che su quella terra aveva avuto luogo 58 anni prima. Udo Surer era allora un giovane avvocato tedesco residente nella cittadina di Lindau dove suo padre si era fermato di ritorno, ferito, dalla seconda guerra mondiale. Quel giorno sentì alla radio il suo Presidente chiedere scusa, esprimere un «senso di profondo dolore e vergogna» pensando alle donne, ai bambini, agli uomini, 775, uccisi tra il 29 settembre e il 5 ottobre 1944 nella zona di Marzabotto. «Mi inchino di fronte ai morti», disse Rau, prima di ringraziare i presenti per «aver fatto diventare Marzabotto un luogo che non divide italiani e tedeschi» identificando gli avvenimenti di quei giorni con una «nostra storia comune, l’impegno per un futuro di pace».

 

Il padre di Surer, Josef Maier, era morto dieci anni prima, nel 1992. Della guerra aveva parlato poco con i suoi figli. Udo sapeva che era stato un soldato delle SS, ma poco altro. Ogni richiesta di chiarimento era seguita da reazioni di rabbia da parte di Maier. «Diceva sempre di aver sparato pochissimo. Un anno fa ho trovato una sua lettera del 1981 dove respingeva tutte le mie accuse, ma mi scrisse, “in guerra si fanno sempre i crimini” e non ha detto di non aver partecipato».

 

Udo, però, sapeva qualcosa degli anni da soldato del proprio padre. «Sentendo alla radio il Presidente Rau mi ricordai che era vicino a Bologna il luogo in cui si ferì e perse la gamba e mi venne in mente che ci dovesse essere qualche connessione. E questo mi ha spinto a iniziare una ricerca». Nel 2003, quando arrivarono i primi risultati, Udo conobbe la verità.

 

«Mio padre era impiegato civile delle Waffen-SS già prima della guerra e quando il conflitto è iniziato è diventato soldato delle SS». Dopo essere stato in Francia e in Russia Josef Maier arrivò in Italia nel 1944. Il 4 giugno di quell’anno, a seguito dell’entrata delle truppe americane a Roma, era iniziata la ritirata dei tedeschi che si assestarono più a Nord, lungo la linea gotica che attraversava in orizzontale la penisola dalla Toscana all’Emilia Romagna. Fu un’estate segnata da rappresaglie contro civili. Sant’Anna di Stazzema, Vinca, Marzabotto. Luoghi fuori mano, paesini di montagna, difficili anche da trovare senza guida, faticosi da raggiungere. Negli anni di conflitto erano diventati rifugi per sfollati che si erano sentiti al sicuro dagli orrori della guerra, in quei mesi estivi del ’44 divennero teatro di eccidi di civili.

Udo Surer, che di quei posti non aveva mai sentito parlare, scoprì che la storia delle persone che li avevano abitati durante la guerra era, in qualche modo, legata alla sua. «Mio padre ha partecipato a tutta la ritirata fino a Monte Sole. La sua unità militare era proprio la famigerata XVI divisione, era nel battaglione della morte guidato da Walter Reder. Il 18 settembre è stato ferito vicino a Prunetta. Ho anche visto le ferite, erano abbastanza gravi, avrebbe potuto finire la guerra a quel punto ma è rimasto con la truppa volontariamente. Io e anche mio fratello medico pensiamo che non sarebbe stato in grado di salire fino a Monte Sole il 29 settembre. Comunque pochi giorni dopo, il 10 ottobre era di nuovo in combattimento, così si è procurato la ferita che è stata seguita dall’amputazione della gamba destra».

 

Per alimentare la sua ricerca, spinto dal bisogno di fare luce sulle menzogne e le omissioni di suo padre, Surer iniziò nel 2004 a visitare quei luoghi della memoria. Prima a Marzabotto per le celebrazioni della strage, poi a Guardistallo e a Sant’Anna. Assistette ai racconti dei superstiti che proprio in quegli anni, dopo decenni di silenzio, iniziavano a testimoniare. Incontrò storici e studiosi e ricollegò la squadra SS di cui faceva parte suo padre ad altri eccidi, come San Terenzo e Vinca.

 

Dalla scoperta degli orrori a cui aveva partecipato Josef Maier, Udo racconta di essere uscito «con un vuoto emozionale, non sentivo più niente», e, nella sua ricerca in giro per i luoghi della memoria in Italia non aveva inizialmente intenzione di presentarsi ai superstiti perché, ricorda, «forse un po’ mi vergognavo».

 

Finché visitò San Terenzo, una piccola frazione in provincia di La Spezia. Cercando il monumento ai caduti di Valla si perse e chiese indicazioni a una persona che leggeva un libro seduta lungo la via. «Quando gli ho chiesto la strada quest’uomo mi ha domandato perché volessi saperla. Ho esitato un po’ ma poi gli ho detto che mio padre era lì come soldato SS il 19 agosto. Lui rispose “bene che siete venuti”. Questo mi ha incoraggiato sempre». L’uomo era Romolo Guelfi, sopravvissuto alla strage, che accompagnò Surer al memoriale dove gli raccontò la sua storia.

 

«Senza aspettarmi di incontrare un sopravvissuto “ci sono caduto dentro così”. Da lì mi hanno invitato a tornare e così dal 2006 in poi sono sempre venuto ad agosto per la settimana delle ricorrenze». Negli anni Udo ha incontrato molti sopravvissuti. Con alcuni, come Celso Battaglia, superstite di Vinca, ha stretto rapporti profondi. Da loro dice di aver imparato il «rispetto e la compassione» e di essere riuscito, grazie a questi incontri a «riempire con qualche emozione» il vuoto che aveva accompagnato la conoscenza.

Per le colpe del padre, però, non ha chiesto mai perdono. Farlo non sarebbe appropriato. Il perdono può essere dato solo a chi ha commesso l’azione e a chi, soprattutto, ha provato rimorso e pentimento. È una questione individuale, quasi privata, il chiedere e dare perdono. Ciò che Surer sente su di sé è, piuttosto, il peso di una responsabilità che si deve concretizzare in impegno civile.

«Responsabilità e colpa sono due cose diverse. Io sento certamente una responsabilità per questa storia familiare, ma soprattutto credo ci sia la responsabilità dello Stato tedesco che, infatti, si è assunto il peso delle azioni del Terzo Reich». Se gli si chiede perché torni ogni anno nei luoghi dei massacri cui suo padre ha partecipato Udo risponde che lo fa perché ne ha bisogno, «ormai mi sento a casa, faccio sempre degli incontri belli, emozionanti. Finché avrò le forze di farlo, lo farò».

Dice anche di non voler dare un significato al suo gesto, che «ognuno può decidere cosa significa per lui». Non è ritualità, però. L’impegno non si esaurisce e non consiste nella commemorazione. Quello è un momento, da declinare nella quotidianità.

Portare l’antifascismo nella vita di tutti i giorni significa, per Surer, prendere coscienza del fatto «che non ci sono solo il bianco e il nero. Quindi differenziare, rendersi conto che non ci sono risposte semplici, avere un’opinione solo quando c’è anche il sapere dei fatti. Oggi c’è tanta opinione ma poca conoscenza dei fatti». Significa anche fare attenzione a questi tempi difficili fatti di fatica quotidiana che acuisce la difficoltà a pensare lucidamente e porta alle divisioni interne. Perché «così si sviluppa anche il fascismo che è solo una superficie ideologica per giustificare tutta questa aggressione».