In merito al commento di Barbara Alberti vogliamo ribadire la necessità di riconoscere l'aborto come un'esperienza personale e soggettiva, suscettibile di diverse coloriture emotive, che non possono, dunque, essere ricondotte ad una visione univoca.
Alla luce dell'urgenza, in tempi di revisionismo storico sul fronte dei diritti, di riscrivere linguaggi e narrazioni nuovi, non possiamo tollerare una retorica stigmatizzante e colpevole verso chi abortisce.
I diritti di autodeterminazione sui nostri corpi e sulle scelte riproduttive non si pagano in dazi di dolore.
In una società in cui il diritto di aborto è messo continuamente in discussione, non possiamo continuare a paragonarlo a un assassinio. I vissuti che attraversano l'aborto sono molteplici, e ciascuno ha il diritto di potersi dire e rappresentare nel mondo senza essere delegittimato.
Appropriarsi dei vissuti soggettivi attraverso una rappresentazione univoca, che ci vede oltretutto dolenti di fronte alla maternità negata, non fa altro che silenziare le nostre storie, le esperienze che ci attraversano, così come la possibilità di poter rivendicare che l'aborto può essere un'esperienza consapevole e liberatoria. Potrebbe esserlo ancora di più se le donne venissero accompagnate in modo rispettoso, con un accesso alle cure dignitoso, servizi adeguati con la presenza di personale non obiettore, nonché in una società non giudicante.
L'inferno dell'aborto lo crea la solitudine forzata a cui le donne sono costrette per la paura di sentirsi giudicate, per quello stigma sociale che diventa interiorizzato, che non permette loro di sentirsi libere di rivendicare la propria scelta senza sentirsi additate da una società che le vuole dolenti per riuscire ad accedere, previa una via crucis infinita, a elemosinare diritti.
E quel “Non si guarisce dall'aborto. Se ne esce vive a metà”, diventa una condanna senza appello per un processo a cui nessuna donna dovrebbe essere chiamata. Continuare a parlare di aborto in termini di sottrazione della maternità è un crinale pericoloso, perché ancora una volta subordina il piano dei diritti sul nostro corpo al mero finalismo riproduttivo. Non siamo nate per essere madri, scegliamo se esserlo, e se incorriamo in una gravidanza indesiderata, l'aborto si configura come una pratica sanitaria volta al benessere, perché in quel momento non vogliamo essere madri. Quindi, sarebbe bene che nessuno ci imputasse la necessità reale, mancata o fantasmatica di doverlo essere.
Alla luce di una corresponsabilità divulgativa, chiediamoci, quindi, cosa possa pensare una donna che ha abortito o che ha scelto di abortire, nel leggere quelle parole. Assumiamo politicamente lo spazio che le nostre parole occupano, nell'idea che possano e debbano diventare luoghi di accoglienza, sostegno e accrescimento della consapevolezza personale.
L'aborto è quello che è per ogni persona. Le nostre parole sono strumenti, cerchiamo di non farle diventare armi.