Con una ricerca shock ha squarciato il velo sul tabù dell’Afghanistan. Costretta a fuggire è rientrata nel Paese per portare via anche il marito. Ora vive in Italia. “Tornerò, sono una guerriera non una vittima”

Batool Haidari parla implacabile e piange soltanto quando ricorda quella notte in cui la vita le è scivolata di mano. Mentre la teneva salda sulla rotta di un compito: aiutare in Afghanistan chi soffre di pedofilia. Racconta l’arrivo dei talebani con gli occhi bagnati e lo fa come se fosse due persone: una che parla seria e spedita, attenta e concentrata. Una che piange lacrime diritte. Psicologa, docente universitaria, madre di tre figli ed attivista afghana rifugiata in Italia. Siamo negli uffici della federazione delle chiese evangeliche in Italia, che attraverso il programma rifugiati e migranti, Mediterranean Hope, realizza i corridoi umanitari dall’Afghanistan, tra gli altri Paesi, e ha permesso l’arrivo di Batool in Italia. «Non sono una vittima, sono una guerriera», è la premessa che scandisce con una fermezza nello sguardo, una specie di durezza inflessibile e inevitabile che la sostiene per tutto il racconto.

 

«Prima eravamo felici. In una sola notte sono stati cancellati 20 anni delle nostre battaglie per la libertà, per il diritto allo studio, al lavoro». Dottoranda in psicologia con alle spalle una lunga esperienza in psicologia clinica e counseling racconta il mondo prima dell’arrivo dei talebani. «Un giorno si presentò alla mia porta un generale dell’esercito. Era molto triste. Iniziò a parlare e capii che c’era qualcosa che non andava. Era un pedofilo. Aveva un nipote che molestava. Consapevole della gravità era venuto da me a chiedere aiuto. Aveva lavorato in passato con i talebani e lì, come tutti i talebani nell’esercito, praticava questa perversione. Adesso aveva deciso di farsi curare».

 

Il grande tabù dei Paesi islamici si rompe per mano di Haidari che inizia nel suo studio a raccogliere testimonianze di altri pazienti: «Per me era un problema nuovo. Fuori qualcuno ne aveva parlato, i giornali stranieri. Ma non c’era mai stato un dibattito nel Paese». Nel 2019 il quotidiano britannico The Guardian aveva pubblicato un rapporto sul coinvolgimento di una rete di pedofili responsabile dell’abuso di almeno 546 ragazzi di sei scuole nella provincia di Logar, a sud di Kabul. «Avevo letto di Logar, ma è un problema che riguarda tutti i Paesi islamici. In quegli anni facevo la spola tra l’Iran e l’Afghanistan, studiavo per conseguire un dottorato di ricerca. Decisi che questa sarebbe stata la mia tesi. Andai dal mio professore con il mio soggetto. Non fu facile. Molto chiaramente il professore disse che era impossibile per motivi molto chiari: ero una donna, prima cosa. Poi: la pedofilia è un tabù in tutti i Paesi islamici quindi innominabile, figuriamoci per una ricerca universitaria. Risposi che non arretravo di un centimetro. Proprio perché era un problema del nostro Paese, lo avrei affrontato. Si riunirono in consiglio e la risposta fu quasi unanime: non si poteva scrivere. Poi un professore si pronunciò: questo è un problema anche per l’Iran ma lei è una studentessa straniera, viene dall’Afghanistan. Lasciatela lavorare, lo farà nel suo Paese sul suo Paese». Non una passeggiata: «Naturalmente nessuno voleva accettare le mie proposte. Ogni volta che presentavo un progetto per la tesi lo bocciavano. È scritto male. Questo dato è fasullo. Volevano che mollassi. Per settimane ho studiato e tradotto tutti gli articoli sul tema. Dopo moltissimi no, alla fine è arrivato l’assenso. Potevo iniziare il mio lavoro. Così tornai in Afghanistan».

 

Batool si stabilisce a Kandahar, la seconda città più grande del Paese, ex capitale, cuore pulsante della cultura talebana: «Lavoravo per il ministero dell’ Interno. In segreto, ero pur sempre una donna. Ho incontrato più di 50 persone. Più di 50 pazienti si raccontavano. Ero riuscita a mettermi in contatto con loro anche grazie ai miei studenti. Chiedevo: avete qualcuno in famiglia con questo problema? Mi rispondevano: sì dottoressa, ma deve pagare. E così pagavo. Vendevo i miei gioielli per portare avanti la mia ricerca».

Passa quattro mesi tra i militari dell’esercito che diventano pazienti: «Un generale raccontò con orgoglio di tre ragazzi che dormivano con lui. Era molto importante che non si facessero crescere la barba. La pedofilia è un grande problema che riguarda soprattutto i talebani. Interpretano in maniera molto rigida la religione e il sesso viene represso. Ho visto a Kandahar ragazzini di 13 anni ridotti in schiavitù. Non sempre capiscono cosa succede, sono troppo piccoli. Pensano: forse è un’iniziazione, forse è una scuola. Altri vengono pagati per questo e lo fanno soltanto perché non possono fare altro. Non c’è altro modo per guadagnare. Incontrai un bellissimo ragazzo che si prostituiva con i talebani. Sei felice? Chiedevo. No, vorrei avere una moglie ma devo fare questo per soldi. Sono schiavi sessuali».

 

L’attacco a Kandahar, cuore dei pashtun e luogo spirituale per i talebani segna il momento in cui tutto cambia nella vita di Batool: «Avevo preso una stanza in un hotel piccolissimo proprio a Kandahar. Un giorno rientro da lavoro e il proprietario mi chiama: Batool, sono arrivati i talebani. Sei una donna, sei senza un marito o un uomo al tuo fianco. Cosa dobbiamo fare? Promisi che sarei stata più attenta. Salii in camera. E verso l’una di notte iniziai a sentire un gran fracasso. Erano arrivati ed erano nel mio hotel».

 

È in questo momento della storia che Batool sembra cedere. Le chiediamo se ha avuto paura. E la stanza si riempie di un silenzio lungo che rovescia gli animi, gonfio. Gli occhi si bagnano e la voce è incrinata: «Non sono una donna che piange. Scusate». Pausa. Ancora un silenzio gonfio e allerta: «Io fino ad allora i talebani li avevo visti soltanto in televisione. Ho chiesto a quell’uomo di salvarmi. Avevo un anello, gliel’ho messo in mano e gli ho detto: salvami. Mi ha portato sul tetto dell’hotel e così sono riuscita a scappare. Correvo verso il nulla, poi all’improvviso ho ricevuto una telefonata: “Signora Haidari, tutto ok?”. Era un mio paziente, il generale. Non capivo perché in quel momento, nel cuore della notte avesse deciso di telefonarmi. “L’ho vista scappare dall’hotel. Le mando un taxi nella strada principale. Si metta in salvo”. Ho capito che era molto potente, molto buono. Arrivai nella strada principale e ad aspettarmi c’era un’autista. Mi ha salvata».

 

Rifugiatasi da un cugino, «ho appreso lì la notizia della caduta di Kabul in mano ai talebani. Non c’era molto da fare. Io avevo un visto per studenti. Potevo lasciare il Paese e tornare. Così ho fatto. Ho barattato ancora una volta il mio viaggio verso l’Iran con i gioielli che indossavo. Un bracciale. E sono giunta in Iran con i miei tre figli. Qui la polizia mi ha accolto. Ma non potevo stare molto. Il mio visto era in scadenza. Mi hanno detto: deve tornare nel suo Paese. Risposi che non potevo, perché il mio Paese, la mia città era stata conquistata dai talebani. Basta coprirsi. Pensai tre lunghi giorni sul da farsi. Pensavo, pensavo, pensavo. Poi chiesi a mio figlio che all’epoca aveva 16 anni: “Voglio andare in un posto, non so dove. Dobbiamo prima recuperare tuo padre. Se sei con me, possiamo farlo. Mi rispose che era d’accordo. Tornai a Kabul».

 

È un’immagine quella che Batool mostra sul suo cellulare. Lei, i suoi tre figli nella striscia di confine tra Iran e Afghanistan. Un fotogramma che immortala l’uscita di centinaia di persone che cercano di fuggire dalla terra caduta in mano ai talebani e una donna che sola, in una strada deserta, con tre figli a fianco, cerca di entrare: «Quando sono arrivata al confine dell’Iran ero l’unica che stava rientrando, mentre gli altri scappavano. Ai posti di blocco mi chiedevano, dove pensi di andare? Rispondevo: scusate, fatevi da parte, voglio tornare in Afghanistan perché c’è mio marito. Arrivammo nella città di Herat e ricordo i corpi di quattro uomini appesi all’ingresso della città. Raggiunsi un cugino e lì riuscii a rivedere mio marito: “Perché sei tornata?”. “Sai perché? Per i tuoi bambini, per te, per la nostra famiglia. Forse tutto si risolverà per il meglio ma anche in quel caso sappiamo che tra 20 anni questa situazione si ripeterà. I nostri figli avranno la nostra età e dovranno rivivere tutto che quello che ho vissuto io. No, adesso è il momento di salvarli».

 

Rientrata nella Kabul dei talebani, Haidari, in attesa di un modo per scappare, non si ferma. Per due mesi organizza proteste insieme ad altre donne. Scende per strada. Entra anche per questo nel mirino dei talebani. «Mi ero esposta troppo. Gli studi sulla pedofilia, le proteste. Poi grazie alla giornalista Maria Grazia Mazzola e alle chiese protestanti, con la mia famiglia abbiamo raggiunto l’Italia, salvandoci».

Non si può mai dire dove andrà il futuro: «I miei figli, che hanno deciso di restare. Hanno trovato un posto dove poter crescere, studiare, realizzarsi. Ma io tornerò in Afghanistan. Per aiutare la mia gente. La vita è un privilegio se la usiamo per fare qualcosa per gli altri. Se diamo un senso. Sono una guerriera, non una vittima. Lo siamo tutti. E non perché siamo in guerra ma perché lottiamo per sopravvivere e per il futuro. Anche fuori dal nostro Paese».