Intervista

Amnesty: «Tra Italia e Cina solo intese sul denaro. Mai una parola sul rispetto dei diritti umani»

di Antonio Fraschilla   6 dicembre 2022

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La denuncia del portavoce italiano Riccardo Noury: «Le nostre istituzioni parlano di accordi commerciali e chiudono gli occhi sul resto»

Secondo il portavoce di Amnesty international in Italia Riccardo Noury le autorità della Cina hanno spesso tentato di fare pressioni su componenti delle loro comunità all’estero e con metodi che vanno contro il rispetto del diritto internazionale. «Sugli uiguri abbiamo segnalato un caso anche in Italia. Ma il vero tema, che le nostre istituzioni non considerano, è che dietro accordi commerciali con la Cina si chiudono gli occhi sulla richiesta del rispetto dei diritti umani nei Paesi occidentali come nel territorio cinese».

Noury, avete segnalato casi di interferenze delle autorità cinesi nei Paesi esteri e in particolare in Europa?
«Sì, ci siamo occupati più volte a livello internazionale della mano lunga delle istituzioni diplomatiche cinesi all’estero. In particolare in relazione alla questione delle famiglie di esuli uiguri, la popolazione che vive nel nord-ovest della Cina, nella regione autonoma dello Xinjiang. Queste comunità sono in diversi Paesi esteri sotto ricatto dalla polizia cinese e dalle autorità di Xi Jinping».

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In che modo sono sotto ricatto, e quali metodi utilizzano le autorità cinesi per farli tornare in patria?
«Cercano in ogni modo di riportarli in Cina con la scusa di dover rinnovare un documento, per esempio, oppure avvisandoli che ci sono problemi con le loro famiglie rimaste nella madrepatria. Sappiamo per certo che, accolta la richiesta delle autorità e ritornati in Cina, moltissimi finiscono nei campi di rieducazione. Ma c’è di più: chi inizialmente si rifiuta di tornare in patria, e mantiene magari rapporti epistolari con la famiglia, mette a rischio i componenti di quest’ultima, che vengono magari arrestati. Si spezzano così sentimenti e rapporti familiari in maniera profonda e drammatica. Ma la situazione più grave di tutti, e che denunciamo a livello internazionale, è quella dei campi di rieducazione dove sono finite oltre un milione di persone. E oggi preoccupa non solo la situazione a Pechino o nell’area della Xinjiang , ma anche quello che si sta vivendo ad Hong Kong: qui è stata appena chiusa anche la sede di Amnesty international».

Avete segnalato casi di pressioni da parte di esponenti del governo o dello stato cinese avvenute nelle comunità in Italia alle nostre autorità? E che risposta avete ricevuto?
«In Italia abbiamo seguito una storia di ricongiungimento familiare. I genitori vivono in Italia ma non riescono a far arrivare dalla Cina i loro tre figli. Dobbiamo dire che in questo caso le autorità italiane ci stanno aiutando, con tutte le difficoltà del caso. Comunque anche da parte nostra è difficile ricevere segnalazioni dall’interno di queste comunità, che sono spesso molto chiuse. In generale ci scontriamo con un Paese che non considera il rispetto dei diritti umani come un elemento fondante dello Stato. In Cina inoltre c’è una continua repressione del dissenso, soprattutto di avvocati che hanno provato a chiedere riforme e che invece vengono perseguiti: in diverse centinaia sono così finiti in carcere con l’accusa di aver seminato disordine e malcontento».

I governi italiani negli ultimi anni hanno fatto diversi accordi commerciali con la Cina. Che risposte avete ricevuto sull’inserimento del rispetto dei diritti umani, in entrambi i Paesi, per la comunità cinese?
«Nessuna. E abbiamo sempre sollevato questo tema: in ogni accordo che viene preso con le autorità cinesi non c’è nulla sul rispetto dei diritti umani. A esempio sulla famosa intesa della “Via della seta”: questi accordi, al contrario, sono basati sullo sfruttamento del lavoro in grandi aree della Cina. E non parliamo solo dei marchi del lusso, dove ci sono decine di denunce. I rapporti tra Cina e Occidente, inclusi i rapporti tra Cina e Italia, sono basati evidentemente sul denaro e non sul rispetto dei diritti».