L’indagine
Così i Casalesi rialzano la testa: fingono la resa, e invece riorganizzano gli affari
I boss del Casertano si riparano dietro a falsi pentimenti, mentre riuniscono il clan e ricostituiscono la cassa comune. Mentre il tribunale di Napoli Nord è gravato da carichi di lavoro insostenibili, sprovvisto di aule e con pochi magistrati
Aforisma 341. «Questa vita, come tu ora la vivi e l’hai vissuta, dovrai viverla ancora una volta e ancora innumerevoli volte, e non ci sarà in essa mai niente di nuovo». Nella stessa sequenza e successione, con gli stessi nomi e le stesse facce, gli stessi interessi e le stesse armi. È la teoria dell’eterno ritorno di Friedrich Nietzsche, è il clan dei Casalesi secondo Anna Carrino, compagna e madre di boss, collaboratrice di giustizia; Gianluca Bidognetti, suo figlio, e Ivanhoe Schiavone, figlio di capoclan e fratello di un pentito. È attraverso le loro parole che è possibile ricostruire la struttura dell’organizzazione, unitaria come non accadeva da trentacinque anni, che ha tatticamente deposto le armi, ma solo finché serve. Che si nutre di ricatti, minacce, estorsioni e – la sola novità – di spaccio di droga, che un tempo era stato subappaltato alla mafia nigeriana.
A quasi quindici anni dalle stragi terroristiche del 2008, a tredici dagli ergastoli definitivi del processo Spartacus, a una decina dagli arresti in massa e dalla cattura dei grandi latitanti, l’inchiesta della Dda di Napoli e dei carabinieri di Caserta, che nei giorni scorsi ha portato a una quarantina di arresti, disegna strategie, alleanze e interessi economici del mai sconfitto cartello mafioso del Casertano. Ci sono, negli atti, i fatti-reato che saranno oggetto di processo. Ma c’è, soprattutto, la strategia a lungo termine: la ricostituzione della cassa comune, lo stipendio agli affiliati e ai capiclan detenuti (anche a Vincenzo Zagaria, capozona a Casapesenna fino al suo arresto nell’aprile 1996), l’attesa per la scarcerazione di Emanuele Schiavone, il più piccolo dei figli maschi del boss chiamato Sandokan e testa pazza che ha visto rinviare più volte la liberazione a causa delle sue ripetute intemperanze.
Anna Carrino lo aveva anticipato il 12 febbraio scorso, in una lunga intervista rilasciata a Roberto Saviano nel programma “Insider”, che il clan sarebbe tornato. E ha detto anche di non essersi «pentita» della sua vita da donna del boss («mi dovrei pentire davanti a un prete»), ma di aver fatto un patto di reciproca convenienza con lo Stato. Così come, in effetti, prevede laicamente la legge. E un’eco dello stesso concetto è nelle parole di Ivanhoe Schiavone, quarto figlio maschio del boss ergastolano, di recente rinviato a giudizio per trasferimento fraudolento di beni. «Io non giudico nemmeno mio fratello Nicola – dice al genero di Francesco Bidognetti – e non giudico nemmeno a Raffaele (figlio di Bidognetti, ndr) o qualche altro cristiano. Non perché è capitato ora nella famiglia mia. Conoscendo i retroscena di tutto quello che poi è successo, di come si sono evolute le cose, tutti i cristiani che hanno fatto asso pigliatutto, di tutte le cose che sono scomparse, di tutte le male azioni che uno ha subito, quello dopo dieci anni di galera ha fatto bene».
La collaborazione con la giustizia, dunque, come una qualunque altra strategia processuale, cancellato lo stigma sui “pentiti” e i loro familiari. Questione di realpolitik. Con un nuovo obiettivo da perseguire: colpire coloro che si sono arricchiti grazie al clan e che l’hanno fatta franca. Ed è per questo che pure Anna Carrino è ammessa alle conversazioni con i parenti. A febbraio aveva detto di non aver più parlato con i figli dalla data del suo pentimento, nell’autunno del 2007. Negli atti dell’inchiesta ci sono invece conversazioni con il genero precedenti di qualche mese. E un regalo importante alla nipote: una ricarica (su PayPal, verosimilmente) di 500 euro.
Tutti insieme come una volta, dicono nelle ambientali. Superando le divisioni tra sottofamiglie che tante morti avevano provocato tra il 1988 e il 2010: alcune centinaia di vittime delle faide che si sono succedute dalla misteriosa scomparsa di Antonio Bardellino all’arresto del primogenito di Francesco Schiavone, Nicola, condannato all’ergastolo e poi diventato collaboratore di giustizia. Cassa comune, escludendo solo il gruppo di Antonio Iovine e la sua famiglia, perché «si sono pentiti tutti» e sono, quindi, fuori dal giro. Ripresa delle attività, dalla piccola usura (prestiti anche da mille euro, ma con interessi del 20 per cento al mese) al gioco d’azzardo, dalle estorsioni alla droga.
Con un occhio, come sempre, ai grandi affari: welfare e sanità durante la pandemia, traffici internazionali su traiettorie temporali più lunghe. L’attività dei carabinieri ha documentato, tra le altre cose, il lungo lavorio di uomini del gruppo Schiavone con personaggi che, sostanzialmente impuniti, da quarant’anni gravitano nell’orbita del clan nel ruolo di broker: da Milano a Roma, da Caserta a Salerno e a Bari, sempre le stesse persone che compaiono in decine di inchieste nel ruolo di procacciatori di droga, di tecnologie per la bonifica di siti inquinati, di carburanti, di immobili e di società decotte e poi svuotate prima di finire nelle aste fallimentari di mezza Italia. La solita compagnia di giro per le solite attività.
Aspettando il ritorno di Emanuele Schiavone e l’immancabile riassetto, il vecchio clan dei Casalesi si è riorganizzato, riammettendo anche i vecchi nemici e i loro nipotini, non ancora nati quando furono ammazzati i nonni, dei quali pure hanno preso i soprannomi. Non si sa che passo avranno i Casalesi 3.0, né quanto tempo dureranno. Gli apparati investigativi sono mille volte più efficienti dei tempi delle origini, le denunce non sono più merce rara. La macchina giudiziaria, invece, non è adeguata alle necessità del territorio.
Il Tribunale di Napoli Nord, inaugurato nel 2013, avrebbe dovuto causare un forte effetto deflattivo sui carichi di lavori di Procura ordinaria e aule di giustizia. I dati forniti dal suo presidente, Luigi Picardi, sono di tutt’altro segno. E sono drammatici. I processi monocratici vengono fissati a quattro anni. Oggi, cioè, si chiude un’inchiesta che arriverà in aula a dicembre del 2026. Tutta colpa, dice Picardi, di una scellerata applicazione della riforma della geografia giudiziaria, che ha sostanzialmente alleggerito di molto il Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, sottraendogli la competenza sui territori del clan dei Casalesi, spacchettando quelli della Terra dei fuochi e caricando tutto su Napoli Nord. Che ha sede ad Aversa e sul quale gravitano anche tutti i Comuni a Nord di Napoli: da Caivano a Frattamaggiore, da Marano ad Arzano, da Giugliano a Villaricca. In complesso, un milione di abitanti e statistiche criminali da orrore. In compenso, niente aule, organici sottodimensionati, carichi di lavoro impossibili.
«Il Tribunale di Napoli Nord ha competenza su ben 38 Comuni, 19 della provincia di Caserta e 19 della provincia di Napoli, alcuni dei quali saliti agli onori della cronaca per vicende gravissime di malaffare: i fenomeni camorristici, il degrado ambientale e urbano associato di riflesso all’espressione “Terra dei fuochi”», spiega Picardi: «Con un bacino di utenza che vanta un dato complessivo di popolazione di gran lunga superiore a quello di altri tribunali del distretto, cioè Santa Maria Capua Vetere, Nola, Torre Annunziata, Benevento e Avellino, dotati di numeri di magistrati e di personale amministrativo, in assoluto e in percentuale, notevolmente superiori a quelli di Napoli Nord, che, per popolazione, è tra i primi cinque d’Italia. È entrato in funzione a carico zero, cioè senza pendenze. Oggi la situazione è questa: per ogni magistrato in pianta organica a Napoli Nord sono arrivati, nel 2021, 444 fascicoli. In concreto, ben 180 più che a Napoli e 150 più che a Santa Maria Capua Vetere. La situazione del penale è particolarmente drammatica. Al 30 giugno scorso erano di fatto pendenti circa 25 mila processi».
Disastrosa la situazione delle strutture: «Non tutte le aule penali hanno camere di consiglio e quelle presenti sono comunque palesemente inidonee. L’edificio che avrebbe dovuto ospitare cinque aule è stato assegnato al tribunale nove anni fa. A oggi, i lavori sono bloccati dalla Sovrintendenza a seguito del ritrovamento di due archi borbonici. Sono stati assegnati al tribunale due edifici in attesa di adeguamento. Per effettuare interrogatori i giudici devono spostarsi a Napoli. Ma in organico ci sono solo quattro autisti e in dotazione due auto, la più nuova delle quali ha già percorso 130 mila chilometri. Oltre al danno, la beffa: ci è stato anche sottratto un autista per destinarlo a un altro ufficio giudiziario». In queste condizioni, assicurare giustizia è poco più di una speranza. E si spiana, così, la strada ai progetti egemonici dei nuovi Casalesi.