L'intervista

Raffaele Cantone: «La giustizia è una malata senza cure. La corruzione? In Parlamento c'è chi dice che non è un problema»

di Anna Dichiarante   19 febbraio 2024

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Oggi è procuratore capo a Perugia, ma il ruolo di presidente Anac gli è rimasto cucito addosso. Il magistrato parla a tutto campo: «Si annunciano molte riforme, senza risultati. Mentre s’indebolisce la lotta al malaffare. E i cittadini riversano la sfiducia sulla magistratura»

«La giustizia è come una persona malata. Avrebbe bisogno di cure da cavallo. Invece, le si chiedono continuamente sforzi senza che le vengano mai somministrati i farmaci necessari». Il tono di Raffaele Cantone si scalda. Quando parla di giustizia, lo fa con un misto di passione e disincanto. Sessant’anni, nato a Napoli, ma radicato nell’hinterland che si allarga a Nord del capoluogo campano, dal giugno 2020 è procuratore della Repubblica a Perugia. Anche se svestirsi del ruolo di presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione, ricoperto dall’aprile del 2014 all’ottobre del 2019, non è stato semplice. Tra gli scandali che esplodevano in sequenza, dall’Expo di Milano al Mose di Venezia, Cantone incarnava la figura più invocata, ammirata, ma pure bersagliata da critiche e diffidenze. Perché, nella società, «il clima intorno al malaffare nella pubblica amministrazione è ondivago. Oggi è stato detto chiaro e tondo in Parlamento che questo non è un problema del Paese».

 

Il riferimento è alla discussione sul disegno di legge del Guardasigilli Carlo Nordio. «Si annunciano molte riforme, ma si rispolverano questioni trite e talvolta ideologiche: la separazione delle carriere tra giudicanti e inquirenti, i test psicoattitudinali, il divieto per il pm d’impugnare le sentenze di condanna. Intanto, si perde di vista l’obiettivo della maggior efficienza. E, soprattutto, s’indebolisce la lotta alla corruzione», prosegue Cantone: «Si pensi ai reati che ne rappresentano le spie, un terreno su cui rischiamo di arretrare. L’abuso d’ufficio ne è l’esempio principale: era già stato modificato e reso quasi inoffensivo nel 2020, adesso lo si vuole abrogare. Il motivo? La paura della firma che provocherebbe in chi, titolare di carica pubblica, si assuma la responsabilità di atti e decisioni da cui potrebbero derivare illeciti. Generando la paralisi amministrativa. Ecco, è una leggenda metropolitana. Spesso gli indagati per questo reato non vengono neanche a sapere di esserlo. Al contrario, l’assenza di una norma che punisca tale comportamento porrà l’Italia in contrasto con una direttiva europea in via d’approvazione e con varie convenzioni internazionali».

 

E se l’abuso d’ufficio sparisce, fortemente depotenziato potrebbe essere il traffico d’influenze illecite (che consiste nello sfruttare o nel vantare relazioni con un pubblico ufficiale, per far dare o promettere, a sé o ad altri, un corrispettivo per la propria mediazione con lo stesso pubblico ufficiale). In pratica, il grimaldello con cui stanare meccanismi marci nella non sempre trasparente attività di lobbying. «Nella riformulazione del ddl Nordio, perché si configuri la mediazione illecita è necessario che i soggetti coinvolti compiano azioni dirette a commettere un reato; si restringerà allora il campo, al punto che non si riuscirà ad arrivare nemmeno alle poche condanne registrate finora», commenta il procuratore. «Eppure la realtà mostra come, in molti casi, la corruzione sia diventata sistemica. Lo strumento di organizzazioni in cui corrotti e corruttori si muovono insieme. E dove non si paga il funzionario per una specifica prestazione, ma per un suo più generale mettersi a disposizione».

 

Le paratie del Mose

 

L’incoerenza, dunque, regna sovrana. Dalla nuova procedura che complicherebbe l’iter delle misure cautelari ai limiti alla pubblicazione delle intercettazioni («non è un bavaglio per la stampa, ma è comunque un errore: invece di costringere il giornalista a riassumere i contenuti di provvedimenti emanati da un’autorità giudiziaria nel rispetto di tutte le garanzie, non è meglio riportarne stralci testuali?»). Ma emblema del caos resta lei, la prescrizione, ridisegnata per l’ennesima volta da Nordio. «In quale altro posto del mondo, a ogni legislatura, si cambiano le regole sui termini oltre i quali un reato non può più essere perseguito? Al di là delle scelte di merito, il problema è che le norme sono troppo stratificate: capire quale si applichi al singolo caso sarà difficile, i giudici si troveranno a ricalcolare le scadenze con i processi già in corso. Così la certezza del diritto è un miraggio».

 

Cantone è convinto che uno dei grandi mali della giustizia italiana sia proprio la durata dei processi, ma che le soluzioni tentate abbiano prodotto scarsi risultati: «Insediandomi a Perugia, mi sono imbattuto in pendenze che risalgono al 2000. Una lentezza ingiustificabile per uno Stato occidentale. Ciononostante, chi governa risponde alla domanda di sicurezza sociale aumentando le pene e moltiplicando le fattispecie di reato; strano modo per abbattere il carico e, di conseguenza, i tempi di tribunali e corti… Anche la riforma dell’ex ministra Marta Cartabia ha aspetti positivi, poiché favorisce la deflazione dei dibattimenti, ma pure negativi, dato che appesantisce la burocrazia specialmente in fase d’indagini. La verità è che c’è un costante chiacchiericcio sul settore, un susseguirsi di proclami che creano aspettative puntualmente deluse. Alla fine né gli addetti ai lavori né i cittadini ci capiscono più niente. L’unica evidenza è che il sistema non funziona e, perciò, la sfiducia della gente si riversa sulla magistratura».

 

E se la categoria ha «una quota parte di colpe», è innegabile ch’essa «troppo a lungo non è stata messa in condizioni di agire. Servono interventi seri sull’organico per colmare i vuoti, per abbassare l’età media dei dipendenti amministrativi e per garantire un’adeguata formazione informatica. Poi occorre rinforzare e riorganizzare la macchina, con il coraggio di rivedere le circoscrizioni territoriali. Io stesso, come capo di un ufficio medio-piccolo, mi scontro con la carenza di risorse e personale».

 

Un ufficio dove Cantone ha indossato di nuovo la toga, dopo l’esperienza da coordinatore del Massimario penale della Corte di Cassazione e dopo la parentesi dell’Anticorruzione. «Il mio arrivo a Perugia non era scontato: concorrevano per questo posto candidati forti, la mia nomina non è passata all’unanimità e il collega escluso ha presentato un ricorso poi respinto dal Tar. Ma sono felice di essere tornato a fare il pm. Oltre a svolgere le mansioni di dirigente, seguo in prima persona alcuni fascicoli e alcune udienze. È ciò che più mi piace. Anche se ammetto che è stato ed è faticoso; perché ho pagato lo scotto di essere stato a lungo fuori da una Procura e perché si tratta di una sede delicata, competente sulle inchieste che coinvolgono i magistrati di Roma». E l’ironia della sorte ha voluto che qui Cantone dovesse occuparsi di una grana scoppiata mentre maturava la sua decisione di dimettersi dall’Anac: la vicenda della “cricca” che avrebbe influenzato l’azione del Consiglio superiore della magistratura e di cui era protagonista Luca Palamara, finito a processo nel capoluogo umbro. «Percepivo che l’atteggiamento della politica e dell’opinione pubblica verso l’Autorità era mutato. Sentivo che era il momento di rientrare in ruolo».

 

Si concludeva, così, una «stagione particolare ed esaltante». Quella in cui l’Anac e il suo presidente venivano chiamati, «talvolta in maniera strumentale», a sventare qualsiasi potenziale corruttela. «Mi prendo il merito di avere reso l’Autorità un modello a livello internazionale: dalla Cina al Messico, ci contattavano per conoscere le nostre buone pratiche sulla trasparenza, come il metodo della vigilanza collaborativa per gli appalti. Non tutti i successi, però, si sono consolidati. L’apertura da parte delle amministrazioni s’è affievolita, l’insofferenza verso i controlli è cresciuta. Insomma, mente chi sostiene che l’Anac fosse una tigre di carta; ma è bene ricordare che non poteva intervenire ovunque: il suo compito era fornire gli anticorpi alla corruzione, non combatterla. E certamente ho sbagliato anch’io a espormi troppo. In questo Paese si tende a trasformare la magistratura nell’unico presidio di legalità, nell’organo supplente di una politica che arretra. Ma l’idea dei giudici eroi è pericolosa».

 

Si vedano, in proposito, le voci “Tangentopoli” e lotta alla mafia. Un fronte, quest’ultimo, su cui Cantone è stato impegnato, tra il 1999 e il 2007, in veste di sostituto procuratore della Direzione distrettuale antimafia di Napoli. Era l’epoca della ferocia della camorra casalese, ma pure d’importanti indagini e di ergastoli che fioccavano su boss come Francesco Schiavone e Francesco Bidognetti. Risultati ottenuti al prezzo di minacce di morte e schizzi di fango, come l’accusa lanciata dagli avvocati del clan di avere manipolato collaboratori di giustizia e giornalisti per pilotare l’esito del maxiprocesso “Spartacus”. Oggi, però, il tema langue nel dibattito pubblico ed è uscito dall’agenda di governo.

 

«I ranghi militari sono stati perlopiù scardinati, è fisiologico che ci siano meno inchieste di rilievo al riguardo. Le mafie sono concentrate a far fruttare gli investimenti, a permeare le istituzioni e i mercati. Preferiscono corrompere i colletti bianchi, piuttosto che intimidirli, sebbene restino un fenomeno distinto dalla corruzione. Anche a Perugia, oltre al traffico di droga dominato da organizzazioni straniere, vi sono tracce significative di criminalità economica e riciclaggio di denaro riconducibile alla ’ndrangheta. Di contro, manca una cultura della denuncia: quasi assenti quelle per usura, molte anonime per segnalare irregolarità nell’amministrazione. Il lavoro, insomma, è stimolante. Anche se l’ambizione di tornare a farlo, un giorno, a Napoli la coltivo sempre».