Reintrodurre la seconda prova dimostra ancora una volta che le istituzioni ignorano le difficoltà didattiche ed emotive causate da due anni di pandemia E anche il Consiglio superiore della pubblica istruzione dà ragione agli studenti ragione

«Siamo giovani che non vogliono studiare in una scuola che cade a pezzi. Abbiamo bisogno di spazi a misura dei nostri desideri, bisogni ed esigenze», dice Syria dell’Istituto Pacinotti Archimede di Roma. La sua è una delle tante voci di studenti che si sono levate per chiedere un modello di scuola più giusto, in cui le critiche all’esame di maturità sono solo il tassello di un malessere generalizzato. Che gli adulti hanno provato a banalizzare. Riducendo le proteste a lamentele di giovani con poca voglia di studiare. Eppure, non è così.

La proposta del ministero dell’Istruzione, arrivata nei giorni delle manifestazioni in piazza, di reintrodurre la seconda prova scritta è l’ennesima dimostrazione di indisponibilità al dialogo da parte delle istituzioni, indifferenti al disagio causato da due anni di pandemia.

«Quello che sta accadendo nel Paese ha colpito tutti e per questo le nostre lotte hanno trovato anche il sostegno dei lavoratori. Chiediamo un’istruzione migliore, capace di mettere al primo posto l’apprendimento senza fare differenze tra studenti di serie a e di serie b, di classe sociale. Una scuola che non sia l’anticamera di un futuro di precarietà e sfruttamento, ma garanzia di formazione», spiega Lorenzo del Liceo Morgagni. Anche il Consiglio superiore della pubblica istruzione ha compreso le ragioni degli studenti, bocciando con un parere obbligatorio ma non vincolante la proposta del ministro dell’Istruzione Patrizio Bianchi di ripristinare la seconda prova scritta all’esame di maturità. Reintrodurla avrebbe significato non considerare le difficoltà didattiche ed emotive vissute negli ultimi due anni.

Le voci di Syria e Lorenzo non sono le uniche. Sabato, nel primo dei due incontri organizzati a Roma dal movimento Lupa-scuole in lotta, più di 300 studentesse e studenti arrivati da tutta Italia si sono riuniti in assemblea nazionale. Da Trento a Catania, i rappresentanti dei collettivi di diverse regioni hanno dato vita a un momento di confronto largo e partecipato. Gli interventi hanno toccato diversi punti, dall’attenzione verso il clima come mezzo per uscire dalla crisi alla battaglia per affermare la propria identità, creando nuovi spazi d’espressione. «Dopo due anni di silenzio, non abbiamo più paura di far sentire la nostra voce», ha detto una studentessa di Venezia. «Siamo stati descritti come dei perdigiorno, dei facinorosi, quando in realtà eravamo solo lì per manifestare contro la morte di un ragazzo», ha aggiunto un rappresentante del collettivo di Torino. A causa della pandemia, i ragazzi hanno smesso di fare politica nelle scuole. Ma le occupazioni sono state un modo per ricreare momenti di socialità e formazione alternativa, rispondendo alle mancanze strutturali del sistema. Che, in teoria, dovrebbe preparare persone consapevoli delle sfide del mondo del lavoro e non automi da inglobare in un meccanismo preconfezionato. Per questo motivo, in più città italiane le proteste di studenti e lavoratori si sono unite. «Esiste un solo tipo di formazione in azienda, retribuita», ha scritto infatti uno degli operai di Gkn Firenze, la fabbrica in lotta contro il precariato, in una lettera letta durante l’assemblea. In cui i ragazzi hanno aperto un dibattito andato ben oltre la questione dell’esame di maturità. Che è «solo il culmine della linea che il ministero dell'istruzione adotta e che noi denunciamo da mesi», spiegano dalla Lupa-scuole in lotta. Per questo, tra i temi portati in piazza c’è anche la critica all’alternanza scuola-lavoro, ai piani per impiegare i fondi del Pnrr e all’edilizia scolastica. E la richiesta di stabilizzare il personale docente e ata. «Con il Covid-19 i nodi sono venuti al pettine e le varie problematiche di un sistema scolastico già in crisi da anni si sono amplificate. Bisogna avere il coraggio di provare ad abbattere le catene di un futuro di precarietà e ingiustizie», aggiungono dal Movimento, che non ha nessuna voglia di fermare le manifestazioni.

Il 18 febbraio ci sarà un’altra mobilitazione nazionale, in cui la salute mentale verrà affrontata come questione politica e collettiva. Perché, agli occhi degli studenti, le istituzioni non ascoltano il grido di una generazione in cerca di esprimere il proprio disagio. Come ha detto una delle partecipanti all’assemblea nazionale della settimana scorsa a Roma, «una scuola diversa è possibile e noi ce la prendiamo».