Archeologia

Studiosi e avventurieri a caccia del tesoro dei faraoni: l’epopea degli Indiana Jones d’Egitto

di Angiola Codacci Pisanelli   18 aprile 2022

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Il gigante del circo e il musicista. Ma anche il diplomatico che vendette a Torino i reperti del Museo Egizio. Vite e racocnti incredibili dei protagonisti di una corsa all’oro nel deserto intorno al Nilo

Della febbre dell’oro negli Stati Uniti dell’Ottocento sappiamo tutti: decine di film e di romanzi d’avventura ci hanno raccontato i giovani richiamati da tutto il mondo dal sogno di ricchezza, pronti a correre ogni pericolo e ad affrontare ogni avversario per appropriarsi di pepite e polveri splendenti. Poco sappiamo invece della febbre che più o meno negli stessi anni si diffuse in Europa. E spinse uomini altrettanto desiderosi di avventure ad attraversare il Mediterraneo per affrontare il deserto egiziano e arraffare da tombe e siti archeologici inviolati statue, mummie, gioielli. Ora una coincidenza di libri, mostre e nuovi musei accende i riflettori su questa caccia non meno redditizia di quella delle epopee western: basti pensare che il più ricco di questi avventurieri ammassò un tesoro che rivendette ai maggiori musei europei per l’equivalente di oltre due milioni di euro.


Il più fortunato degli esploratori che scrissero le origini – molto epiche e poco scientifiche - dell’egittologia si chiamava Bernardino Drovetti e veniva dalla provincia di Torino. Ma è solo un caso se la sua collezione è il nucleo iniziale del ricchissimo Museo Egizio – considerato secondo al mondo solo a quello del Cairo. Drovetti infatti era arrivato in Egitto nel 1802, subito dopo la Campagna d’Egitto che fece innamorare della Terra dei faraoni l’intera Europa, per un incarico del governo francese che presto lo nominò console. La collezione che nei vent’anni seguenti spedì in Italia – 150 papiri, 5000 gioielli, 150 statue e decine di mummie – contava di venderla al Louvre. Ma i tempi erano cambiati: Napoleone era caduto, la Francia non aveva soldi da investire in cimeli egizi, i Savoia da poco tornati sul trono invece sì. A fare da tramite per la vendita fu Carlo Vidua, che così descriveva Drovetti ai suoi contatti torinesi: «Qui in Egitto Drovetti è onnipotente. Nessun europeo è mai stato così importante in una nazione musulmana. Quando naviga sul Nilo con il suo caicco, dai porti si levano salve di cannone per salutare il suo passaggio».

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Questa storia la racconta in “Drovetti l’Egizio” (Utet) Giorgio Caponetti. «Ma ho romanzato molto», mette le mani avanti: in effetti viene il dubbio, incontrando in Egitto Alvise Pàvari dal Canal, protagonista dei quattro gialli storici che lo scrittore torinese ha pubblicato per Marcos y Marcos. «La base del romanzo sono le lettere di Drovetti, che mi ha fatto conoscere Laura Donatelli. Ma sono pagine illeggibili, interessanti da un punto di vista storico ma pompose, non adatte a un romanzo». Il resto lo ha fatto la storia di quegli anni, con i suoi incroci sorprendenti, che facevano incontrare in luoghi di una bellezza senza pari strani personaggi di ogni sorta. Pronti a tutto per arricchirsi: «Anche Drovetti non era certo un benefattore», sottolinea Caponetti, «anche se ebbe almeno un grande merito nei confronti dell’Egitto. Durante un’epidemia di vaiolo convinse il viceré a finanziare una campagna di vaccinazione, ed ebbe l’idea di affidarla ai barbieri: ce n’erano in ogni villaggio, e di loro tutti si fidavano».

 

Il più pittoresco tra questi avventurieri italiani era sicuramente Giovanni Battista Belzoni, gigante da circo e Indiana Jones ante litteram: «Ma prima di tutto ingegnere idraulico geniale», racconta Caponetti. «Era andato al Cairo con l’obiettivo di vendere al viceré Mehmet Alì una pompa idraulica che aveva inventato. Lui la guardò con attenzione, si fece spiegare il funzionamento, e poi gli disse no: “Se questa macchina prende l’acqua, cos’avrà da fare il mio popolo?"» Belzoni allora ripiegò sulla corsa ai reperti che, fosse fiuto o fortuna, lo portò a scoperte decisive: trovò l’ingresso della piramide di Chefren, riaprì una delle più belle tombe affrescate, quella di Sethi I nella Valle dei Re, e fu tra i primi a entrare nei templi di Abu Simbel rimasti sepolti dalla sabbia per tanti secoli che se ne era perso anche il ricordo. La sete di scoperte e di tesori per lui era inesauribile: morì di dissenteria in Nigeria mentre cercava di raggiungere Timbuctu, altra città mitica per le sue ricchezze. Le gesta di quello che Marco Zatterin nella sua biografia ha chiamato “Il gigante del Nilo” si incontrano dovunque. Anche nel museo che Grenoble ha recentemente dedicato ai fratelli Champollion, lo storico Jacques-Joseph e il linguista Jean-François, il decifratore dei geroglifici.

 

Proprio Belzoni aveva trovato, trasportato e fatto partire per l’Inghilterra il primo monumento con scritte in lingue diverse, l’obelisco di File, con scritte in geroglifici e in greco. Ma la decifrazione sarebbe stata impossibile senza l’aiuto della Stele di Rosetta, un reperto famosissimo, che intreccia egittologia, storia e un capitolo dell’eterna rivalità tra Parigi e Londra. Scoperta dai francesi, fu presa dagli inglesi come bottino di guerra, ma è stata decifrato da uno studioso francese che si basava su una copia. Il vero scopritore della stele era però rimasto finora nell’ombra. Si chiamava Pierre-François Bouchard, era un militare specializzato nella costruzione di fortificazioni, e proprio durante gli scavi per rinforzare un forte trovò la pietra nera coperta di iscrizioni, della quale riconobbe subito l’importanza. Dalla sua scoperta Bouchard non ebbe soldi e nemmeno gloria: morì un mese prima che Champollion annunciasse di essere riuscito a tradurre la scritta. A farlo uscire dall’anonimato è stato Ahmed Youssef, direttore del Centre d'études moyen-orientales di Parigi, in un libro intitolato "L’ufficiale Bouchard, che noi non conosciamo: lo scopritore della Stele di Rosetta”.

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Da questa rapida raccolta di avventure è evidente che la prima vittima di questa corsa all’oro tra avventurieri e governi europei era il popolo egiziano, defraudato dei tesori nascosti dalle sabbie da stranieri che se ne appropriavano senza scrupoli. Non tutti gli esploratori e gli archeologi erano così: ma purtroppo le storie dei ricercatori “buoni”, anche se probabilmente più importanti, sono meno avventurose.

 

Come la spedizione in Egitto di Champollion nel 1828 insieme al toscano Ippolito Rossellini, considerato uno dei padri dell’egittologia moderna (e rispettosa). Più che di reperti, - che comunque c’erano e sono esposti al museo archeologico di Firenze e in mostra fino a fine agosto nella collezione Edda Bresciani dell’Università di Pisa - la spedizione tornò carica di disegni e acquerelli ancora oggi importantissimi per ricostruire, per esempio, com’erano gli affreschi appena usciti dalla sabbia che fino a quel momento ne aveva preservato i colori.

 

Nello stesso torno d’anni, l’Egitto era meta di un altro tipo di avventurieri: gli esploratori che cercavano le fonti del Nilo, destinate a diventare il vero enigma del secolo. Una mostra a Rovigo (“Giovanni Miani, Il leone bianco del Nilo” a Palazzo Roverella) mette a fuoco uno dei viaggiatori più sorprendenti, un veneto che si dedicò alle esplorazioni al di sopra di Assuan dopo aver rinunciato al sogno della sua giovinezza: scrivere una storia universale della musica. Nella mostra, curata da Mauro Varotto da un’idea di Sergio Campagnolo, si racconta che anche Miani in realtà era stato attirato dall’oro: i suoi viaggi iniziarono per la ricerca del mitico Offir, regione biblica così ricca da avere le strade lastricate d’oro: ogni tre anni mandava al  Re Salomone una flotta carica d’oro, pietre preziose e legno di sandalo.

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Le avventure legate a quei decenni selvaggi sono talmente tante che neanche il volume più dettagliato può contenerle tutte. «Già, la storia più strana forse è quella che alla fine è rimasta fuori», ammette  Caponetti. «C’è un compaesano di Drovetti che a un certo punto arriva in Egitto, si chiamava Antonio Lebolo: un vero personaggio, un avventuriero senza paura. Tra i tesori che riportò dall’Egitto, oltre a una moglie nera e due figli – un vero scandalo per il Piemonte del tempo – c’erano papiri e mummie». Lebolo li affida a un mercante che li porta in America, esibisce le mummie nelle fiere e finisce per vendere i papiri a Joseph Smith, il fondatore dei mormoni. Che è sicuro di rintracciare nella propria traduzione di quei testi la vera storia della schiavitù degli ebrei in Egitto. Un testo fondamentale: tanto che ancora oggi arriva a Castellamonte, il paese natale di Lebolo, un americano che viene a cercare la casa di quell’avventuriero piemontese che ha legato il suo nome ai papiri sacri dei mormoni.