Il caso
«Noi quelle armi non le carichiamo»: la protesta dei lavoratori della logistica
«Ci avevano detto che erano aiuti umanitari, ci siamo trovati davanti casse di armi, esplosivi, mitragliatrici». L’ultimo episodio all’aeroporto di Pisa per le fornitura per l’Ucraina. Ma in passato era successo a Livorno, Ravenna e Genova
Sabato 12 marzo, città di Pisa, Toscana. Nel pomeriggio, all’Unione sindacale di base (Usb) arriva una telefonata: «Ci hanno chiesto di caricare un aereo civile cargo dicendoci che sono aiuti umanitari, ma noi abbiamo visto delle armi. Noi, questo volo, non lo carichiamo!».
A ricostruire a L’Espresso quelle concitate ore è Cinzia Della Porta, nell’esecutivo nazionale dell’Usb (nato nel 2010, circa 250mila iscritti) e responsabile del dipartimento internazionale. «Sono dipendenti diretti di Toscana Aeroporti», chiarisce subito la sindacalista. Lavorano quindi per la società mista pubblico-privata quotata in Borsa, che dal 2015 gestisce gli scali aeroportuali di Pisa e Firenze che nel proprio codice etico ribadisce tra le priorità la sicurezza dei lavoratori. In Toscana Aeroporti, con con quote ormai minoritarie (attorno al 5 per cento), siedono anche gli enti locali: Regione Toscana e Municipi (Pisa e Firenze). Prima dell’escalation del conflitto in Ucraina, nella città della Torre pendente atterravano anche i jet privati degli oligarchi russi con interessi nell’alto Tirreno, dalla Maremma fino alle Cinque Terre liguri. Cui si aggiunge il trasporto merci dell’area cargo, compresi i beni di lusso prodotti in Toscana, come quelli in pregiata pelle delle concerie locali e le firme dei grandi marchi, molto richiesti dai cittadini russi facoltosi.
Quel 12 marzo, appena hanno capito la reale natura del carico del volo Bluebird Nordic (un Boeing 737-8F2) «i lavoratori sono rientrati nella struttura aeroportuale», continua Della Porta dell’Usb. Aggiunge a L’Espresso Carlo Tombola di Weapon Watch, sito Internet che fa da osservatorio sulle armi nei porti europei e del Mediterraneo: «Subito dopo a sostituirli è arrivato personale militare e il velivolo è stato ugualmente caricato». Tra quelle casse c’erano le armi promesse dall’Unione europea (e quindi anche dall’Italia) all’Ucraina invasa dall’esercito russo. Erano dirette a Resovia (Polonia), «la tratta più importante per gli aerei militari italiani, con due, tre voli al giorno», rivela Tombola.
«Lungo la strada che da lì porta a Leopoli, la più importante città ucraina lontana dal fronte, fin dal 2007 c’è il Yavoriv Training Center, un comando logistico statunitense protetto da 1.800 paracadutisti. Abbiamo visto partire voli di quel tipo anche da Villafranca e non soltanto per Resovia, ma anche verso Costanza, altro hub nel sud dell’Ucraina», continua l’animatore di Weapon Watch. Non è la prima volta che lavoratori della logistica italiani si rifiutano di caricare armi.
Era già successo a Livorno e Ravenna, con forniture destinate a Israele durante l’operazione “Guardiani delle Mura” su Gaza del 2021, mentre a Genova è attivo un Collettivo autonomo dei lavoratori portuali che tramite il proprio sito Internet diffonde informazioni sulle navi saudite che dagli Usa fanno costantemente scalo nel capoluogo ligure cariche di armamenti (l’Arabia Saudita dal 2015 partecipa alla guerra nello Yemen). «Ai sensi della legge 185, ma anche del trattato internazionale sul trasferimento di armamenti, è vietato trasferire e far transitare armi attraverso il proprio Paese, quando si abbia il sospetto o ci sia il pericolo che possano essere usate per violare i diritti umani in qualche altro posto del mondo o per commettere crimini di guerra», puntualizza Tombola di Weapon Watch.
«Quello che è successo a Pisa è gravissimo», attacca Della Porta del sindacato Usb. «L’elemento sicurezza è fondamentale. In un Paese come l’Italia che conta tre morti al giorno sui posti di lavoro, non si può pensare che personale civile si occupi di un carico di quel tipo, perché i protocolli sono e devono essere diversi. Messa a rischio anche la stessa struttura aeroportuale e le case vicine, visto che lo scalo di Pisa è praticamente dentro la città», evidenzia ancora la sindacalista.
Ecco perché dopo aver raccolto le testimonianze di quei lavoratori, l’Usb ha deciso di rendere pubblica la cosa con un comunicato stampa, conquistando le cronache locali e suscitando molta indignazione e polemiche politiche. Il presidente di Toscana Aeroporti, Marco Carrai, si è scusato pubblicamente ammettendo l’errore e assicurando che non succederà più. Mentre il generale Francesco Paolo Figliuolo, a capo del Comando operativo di vertice interforze (Covi) e già commissario straordinario per l’emergenza Covid-19, ha confermato che quei «materiali erano parte del sostegno militare per l’Ucraina deliberato dal Parlamento», aggiungendo che la compagnia in questione (la Bluebird Nordic) era «abilitata al trasporto di quella tipologia di merci». Il generale ha inoltre ammesso che si sono spinti a inviare quel carico dall’aeroporto civile, perché la parte militare dello scalo quel giorno era congestionata. «Le armi del 12 marzo erano italiane, ma siamo stati informati di flussi notturni di camion che nella prima metà del mese partivano verso l’aeroporto dalla vicina base di Camp Darby, distante tre chilometri», denuncia Walter Lorenzi dell’Assemblea contro la guerra. Tra le forniture, molto probabilmente, anche i droni promessi dagli Usa agli ucraini, compresi gli Switchblade, definiti aeromobili kamikaze senza pilota.
Sette giorni dopo, il 19 marzo, oltre 2.000 persone (secondo gli organizzatori) provenienti da tutta la Toscana, ma anche da Genova e dalla Sardegna, hanno manifestato davanti all’aeroporto di Pisa contro l’invio di forniture militari ai Paesi in conflitto. «Inviare armi significa alimentare la guerra, portando l’Italia e tutti gli altri Paesi verso la terza guerra mondiale», spiega la sindacalista Della Porta. «Quei lavoratori ai quali era stato detto che dovevano caricare aiuti umanitari, si sono trovati davanti casse di armi: esplosivi, mitragliatrici», gli fa eco Lorenzi dell’Assemblea contro la guerra. Questa giovane realtà, alla quale partecipano una ventina di sigle (politiche, sindacali, giovanili e associative), è nata contro quella che in zona si è configurata come una vera e propria cittadella militare in continua espansione.
A Coltano, borgo a sud di Pisa con campi coltivati e una vasta pineta inclusa nel Parco di San Rossore, il governo italiano vuole realizzare il nuovo quartier generale del 1° Reggimento carabinieri paracadutisti “Tuscania” e la sede del nucleo cinofili dell’Arma. In totale, ben 440mila metri cubi di nuovi edifici da realizzare, recintando 730mila metri quadrati di area protetta sottratta al Parco regionale toscano.
Un progetto inserito dal governo Draghi nel Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr), messo in campo dall’Unione europea per «riparare i danni economici e sociali causati dall’emergenza sanitaria da Coronavirus». Molti i malumori locali, vista la già elevata militarizzazione dell’area in questione: base co-gestita Usa-Italia di Camp Darby col più grande arsenale statunitense all’estero, Comando delle forze Speciali dell’esercito (Comfose), brigata Folgore, nono Reggimento d’assalto paracadutisti “Col Moschin” e hub militare aeroportuale nazionale gestito dalla 46° brigata aerea “Silvio Angelucci”. Ma nonostante le proteste, lo scorso 23 marzo quel progetto è finito ugualmente in Gazzetta ufficiale, togliendo peraltro potere di veto sulla sua realizzazione al presidente del Parco, Lorenzo Bani.