Dai Graviano a Messina Denaro. Dagli eccidi del 1992 e del 1993 al ricatto che i protagonisti sopravvissuti esercitano sulle istituzioni. Il nuovo libro di Lirio Abbate sulla stagione al tritolo decretata dai boss corleonesi

La storia che racconta Lirio Abbate parte da lontano, da una piccola, insignificante strada di un’ex borgata palermitana devastata dal cemento. Ma non si ferma lì, lascia lo spazio angusto di ciò che rimane della Conca d’Oro svenduta ai palazzinari per risalire piano piano al centro di Palermo e all’Isola tutta e, infine, al cuore del potere politico-finanziario del Paese.

 

Si comincia dall’anonima via Giuseppe Tranchina per raccontare la più brutale aggressione che uno Stato moderno abbia mai subito da un’organizzazione criminale in uno spazio di tempo relativamente (dal punto di vista storico) lungo ma breve per ciò che ha lasciato nella memoria e nella coscienza collettiva degli italiani.

 

Sono passati trent’anni da quando la mafia stragista ha tentato di colpire il cuore dello Stato, prima con la violenza delle bombe, poi tentando di corrompere la tenuta democratica delle istituzioni preposte all’azione di contrasto al crimine mafioso. Trent’anni di alti e bassi in questa battaglia dei buoni contro i cattivi, una guerra che sembra tutt’altro che conclusa ed ha visto protagoniste assolute alcune menti criminali in parte vinte dal peso della storia, in parte ancora in grado di nuocere.

Totò Riina, il padrino di Corleone, non c’è più. È morto nel reparto detenuti dell’ospedale di Parma senza aver mai aperto bocca, se non per spargere gli ultimi veleni attraverso le «rivelazioni», la maggior parte false e manipolatrici, affidate al suo «compagno di socialità» durante lunghe passeggiate nel cortile del penitenziario. Resta in piedi il cognato, Leoluca Bagarella, che non ha mai rinnegato il giuramento fatto quando la mafia scoprì il «tradimento» delle forze politiche, secondo lui inadempienti per non essere riuscite a salvare Cosa Nostra dal colpo mortale inferto da Giovanni Falcone col suo maxiprocesso. «Non ci fermeremo - giurò - fino a quando ci sarà un solo corleonese vivo», e in effetti di danno sono riusciti a farne parecchio.

 

Ma ci sono altri coprotagonisti di questa storia nera, personaggi che del basso profilo mediatico hanno fatto una religione, riuscendo ad esercitare un ruolo primario nella strategia politico-criminale di Cosa Nostra, rimanendo spesso nell’ombra ed emergendo appena solo quando le contingenze lo hanno richiesto e specialmente dopo la cattura di Totò Riina, quando il capo cadde nella trappola dei carabinieri e gioco forza dovettero «assumersi le proprie responsabilità» i giovani leoni: Giuseppe Graviano e Matteo Messina Denaro, due menti diaboliche che non si sono arrese alla sconfitta e continuano a tramare, il primo dal carcere che non gli impedisce di dispiegare forza e intelligenza «politica», l’altro dalla sua non irresistibile latitanza forse frutto di compiacenti amicizie, che, ad una cattura che provocherebbe un pericoloso vuoto di potere mafioso sul territorio, preferiscono un quieto vivere controllato, secondo le vecchie e mai sopite regole della convivenza tra guardie e ladri.

 

Tutto questo, partendo da via Tranchina, racconta come in un thriller, Lirio Abbate nel suo “romanzo nero”: Stragisti. Da Giuseppe Graviano a Matteo Messina Denaro: uomini e donne delle bombe di mafia (300 pagine, Rizzoli), in uscita il 26 aprile.

 

Ma perché via Giuseppe Tranchina 22, quartiere San Lorenzo, Palermo? Quella era l’abitazione di un semisconosciuto mafioso, Salvatore Biondino, che guidava l’auto sulla quale viaggiava Totò Riina quando venne arrestato, il 15 gennaio 1993. I carabinieri del Ros, forse storditi dall’eccesso di adrenalina per avere messo le mani sul padrino, non diedero grande importanza all’anonimo autista del capo e non eseguirono neppure un’immediata perquisizione della sua abitazione. Errore grave, perché Biondino non era un signor nessuno, era il capo di uno dei mandamenti più «titolati» di Cosa Nostra, quello di San Lorenzo, appunto. E in casa, quella mattina, aveva riunito il gotha dei padrini di Cosa nostra, appunto gli Stragisti. E non solo, teneva soldi a palate e documenti che avrebbero potuto raccontare molto della Cosa Nostra dell’epoca.

Totò Riina

Ma così non andò e non andò bene neppure col covo-villa di Riina che non fu perquisito per tempo, tanto da concedere ad alcuni «pulitori» il tempo di svuotare persino una cassaforte e affidare una corposa documentazione a Matteo Messina Denaro che, dunque, oggi deterrebbe la chiave dei segreti dello zio Totò e dei suoi soldi. Ecco, Abbate si chiede se di inadempienza colposa si trattò oppure di omissione colpevole. Fatto sta che le cose avrebbero potuto prendere una piega diversa, ben più favorevole allo Stato, se la via Tranchina avesse acceso un faro nelle indagini e soprattutto se gli investigatori avessero seguito Totò Riina diretto proprio a casa Bondino per una riunione della cupola convocata per pianificare omicidi e stragi. Pensate che colpo, catturare la cupola al completo, con Bagarella, Messina Denaro, i Graviano e tutto l’altare maggiore. Ma oltre ai boss, cosa c’era nell’abitazione di Biondino? Abbate lo fa dire ad un testimone oculare, oggi pentito importante che, ironia della sorte, si chiama come la stradina di San Lorenzo: Fabio Tranchina, un giovane cresciuto in un ambiente a rischio e ingoiato nel gorgo mafioso anche a causa di un matrimonio sbagliato ma mai sconfessato.

 

Fabio Tranchina ha fornito alla magistratura un ritratto completo degli stragisti, in particolare della famiglia mafiosa di Palermo che ha raccolto l’eredità lasciata da don Totò: i Graviano di Brancaccio, che rappresentano la mafia col pedigree. Mafia antica, mafia dei giardini e poi mafia moderna che però non dimentica le proprie origini, le regole, il senso dell’onore, la mai sazia sete di vendetta. Capostipite fu Michele, sposato con una donna appartenente ad una famiglia che Cosa nostra la esportò a Milano. Poi i tre figli maschi: Benedetto, Filippo e Giuseppe e la piccola, «a picciridda» Nunzia che comunque la pagnotta se l’è guadagnata pure lei imparando a gestire una montagna di soldi dopo la cattura dei fratelli maschi.

 

Il ruolo di erede di don Michele, ucciso all’insorgere della seconda guerra di mafia sarebbe dovuto andare a Benedetto, ma, dice Riina in carcere parlando con il «compagno di socialità», era considerato «scimunito». E tra Filippo e Giuseppe, quello più sveglio per Totò era proprio il secondo, capace di conquistarsi il rispetto della truppa con metodi «cristiani», capace di «farsi ubbidire» dando l’impressione di lasciare libertà di scelta. Una mente lucida e sempre in movimento, come si evince dal racconto di come sia riuscito a organizzare la strage di via D’Amelio (il giudice Borsellino e 5 agenti della scorta) e come Cosa Nostra abbia potuto ribattere colpo su colpo all’azione di contrasto dello Stato sempre in ossequio alla linea dura di Riina, idolatrato come un padre («semu tutti figghi di stu cristianu»), che «appariva con le spalle coperte», specialmente dopo l’assassinio dell’ex sindaco Dc di Palermo, Salvo Lima, ritenuto un traditore per non essere riuscito a «sabotare politicamente» il maxiprocesso di Falcone. Ecco, la vendetta: il motore che fa decollare la svolta stragista della mafia ma che, nel privato, muove anche le paranoie personali, come l’ossessione per la mancata punizione di Totuccio Contorno, ritenuto l’assassino di Graviano padre ma sfuggito ad un agguato e poi artefice (in società con Buscetta) della disfatta giudiziaria di Cosa nostra.

Giuseppe Graviano

Il romanzo fila veloce, anche perché non cerca conferme giudiziarie. Abbate fa un racconto, sostenuto da episodi inediti e documenti nuovi, che non è destinato alle aule di giustizia, scrive una cronaca mettendo insieme spezzoni di verità disseminate tra migliaia di carte e verbali poco conosciuti al pubblico. Il risultato è impressionante perché spesso sono gli stessi protagonisti a rivelare brandelli di storia, uomini votati all’omertà che invece offrono chiavi di lettura. Il contributo di Tranchina è notevole, ma è lo stesso Graviano che, vinto dal suo delirio manipolatorio, racconta in presa diretta anche quando nega per confermare, come nella migliore tradizione dei mafiosi che inquinano i pozzi. Graviano lancia il sospetto che la cattura (furono presi lui, Filippo, e le rispettive compagne) al ristorante di Milano “Gigi il cacciatore” non fu casuale, insinua che l’episodio possa essere inserito nella ingarbugliatissima storia delle frequentazioni berlusconiane dei Graviano.

 

E come insinua? Semplicemente definendo la cattura un «arresto singolare e inaspettato», lasciando intendere, così, di aver avuto in passato coperture poi revocate. E Abbate qui svela come e da chi i Graviano sono stati traditi e venduti ai carabinieri nel gennaio 1994. Parla liberamente, Giuseppe. Ma con qualche piccola censura. Per esempio, non parla mai di Marcello Dell’Utri, il suo «paesano», il politico che Gaspare Spatuzza dice di aver avuto citato da Graviano quando lo ha incontrato alcune settimane prima dell’arresto al bar Doney di via Veneto a Roma e che avrebbe consentito al boss di poter dire, dopo quell’incontro, «ci siamo messi il Paese nelle mani». E accredita una verità di comodo, più consona all’etica mafiosa, quando parla della gravidanza della moglie avvenuta mentre era detenuto.

 

Molti pensavano all’inseminazione artificiale, ma lui dice di avere avuto un contatto fisico con la moglie, fatta entrare clandestinamente in carcere. Stessa operazione sarebbe stata fatta da Filippo, anch’egli divenuto padre da detenuto. I documenti citati nel libro e le fonti raccolte raccontano invece un’altra storia che ha alla base accordi mafiosi. La censura si fa totale quando l’argomento è l’assassinio del piccolo Giuseppe Di Matteo, il figlio del pentito ucciso per fare ritrattare il padre. L’immaginario ha già attribuito ogni colpa ai Brusca e quindi Graviano cerca di tenersene alla larga. Una lettura istruttiva, il libro di Lirio Abbate, che mette a nudo uomini, meccanismi e regole di una comunità (Cosa Nostra) che non pare arrendersi alla sconfitta. Trent’anni di ricatti mafiosi e strategie criminali, sotto la guida di Graviano e Messina Denaro. L’ultima spiaggia dei Graviano sembra essere quella del tentativo di poter uscire dal carcere a dispetto delle condanne all’ergastolo. Per questo risulta molto seguita, in carcere, la vicenda politica legata alla riforma dell’ergastolo ostativo. E della dissociazione. E per questo Graviano ha già fatto conoscere il proprio pensiero scrivendo al ministro della Giustizia, Marta Cartabia, la cui lettera è stata acquisita dai magistrati. Il manipolatore non demorde e ciò che racconta questo libro non è una fiction.