La storia
La battaglia di Lucia Elen Ayari: sul ring di Librino per fare a pugni con i pregiudizi. Sognando le Olimpiadi
Vive in comunità, è nella nazionale italiana e ha vinto il bronzo ai Mondiali Youth 2021. E ora sogna un futuro nelle forze armate per continuare a fare sport, anche grazie al miracolo di una palestra popolare nel catanese diventata una famiglia. “La boxe dà un filtro alla mia rabbia”
A otto anni, vestita per la danza classica, col tutù, le calze e le ballerine di cuoio, si mise a correre con i maschi che giocavano a calcio su un campo di terra battuta. Nella casa-famiglia dove stava, lo sport era separato tra maschi e femmine. «Non capivo perché». Le suore presero a gridare, il calcio non era per le bambine. «Oggi non permetto a nessuno di ostacolare i miei obiettivi». Oggi la diciottenne catanese Lucia Elen Ayari è una nazionale italiana di pugilato, ha vinto il bronzo ai Mondiali Youth 2021. Tre mesi dopo, la boxe femminile italiana ha vinto con Irma Testa la prima medaglia olimpica. Lucia punta ai prossimi Giochi del 2024.
Al pugilato è arrivata attraverso un corso di zumba al Palanitta di Librino. Un’altra danza. Lucia tornava in zona dopo averci vissuto con la madre e i fratelli fino agli otto anni, prima di andare in casa-famiglia perché le difficoltà pesavano troppo. Durante una lezione di zumba mister Antonino Maccarrone, detto «il Profeta», 41 anni, l’ha vista per la prima volta. «Aveva qualcosa nei movimenti e nello sguardo. Le ho detto: Hai la faccia da pugile». Non sarebbe venuto in mente a molti. Lucia ha le scintille negli occhi e sul ring mostra la ferocia insieme al coraggio, ma quando ripone i guantoni la sua grazia è angelica.
«Il pugilato nasce maschile», dice lei. «All’inizio, per sentirmi a mio agio, ho assunto atteggiamenti maschili. Ho potuto trasformarmi solo quando ho reso mio il pugilato, quando gli altri hanno saputo che quel modo di combattere era mio, e mi hanno riconosciuta». Ha iniziato a quattordici anni. Usciva da scuola, attraversava la città su un autobus, in palestra si allenava, in palestra faceva i compiti. Di sera erano gli allenatori a riportarla a casa. Un’altra casa-famiglia, perché ne ha cambiate diverse e ancora oggi vive – come si dice – in comunità.
Lucia agita le mani, con la crema idratante sulle nocche, dice: «Qui sei libero. Libero di esplorare. Qui gli unici errori riguardano un pugno dato male». «Qui» è la palestra dell’Asd Boxing Team “Catania Ring”, al piano superiore del Palanitta. Tra le urla dei mister, le urla dei pugili che portano i colpi, il cigolio delle catene che reggono i sacchi appesi, la campanella che scandisce l’allenamento. Aprì nel 1996, in uno dei luoghi più stigmatizzati d’Italia, ai margini sociali prima che geografici. Librino è un insieme di quartieri, una città nella città, e dal prestigioso progetto di Kenzo Tange degli anni Settanta è diventato altro. Molti problemi, ma non solo problemi. Per raggiungere le torri e le stecche Ina Casa a un piano, le masserie didattiche e le chiese evangeliche, le strade larghe coi cani randagi sull’erba, bisogna superare il cimitero, il limite della città. Ci sono catanesi che non saprebbero arrivarci, ma dal Duomo la palestra dista quattro chilometri.
A Librino vivono circa quarantamila persone secondo le carte, più probabilmente il doppio: le cifre sono incerte per l’alto tasso di occupazioni abitative. Ci sono un solo ufficio postale e una sola banca. Le uniche scuole superiori sono istituti professionali. C’è un teatro ma è stato vandalizzato, non esiste cinema. L’unica biblioteca pubblica è in un posto speciale, a lungo abbandonato e infine liberato da un gruppo di cittadini nel 2012. Da dieci anni l’associazione sportiva Briganti Asd Onlus, con il suo campo da rugby, la club house, gli orti sociali, tiene viva la possibilità di praticare sport gratuitamente, studiare, incontrarsi. È tra le associazioni della rete “Piattaforma per Librino”, che appassionatamente riempie il quartiere di attività e media tra il territorio e l’amministrazione.
Da Librino si vede il mare e si vede l’Etna. Si vedono gli aerei alzarsi sopra l’aeroporto, vicinissimi. Lucia Elen Ayari ha già viaggiato molto grazie alla boxe. In Sicilia ha combattuto una volta sola. «Nei pre-match internazionali, ti alleni con persone di altri Paesi, altre culture, altre tecniche da cui apprendi. Così arricchisci la tua». Lo scorso autunno non ha partecipato ai campionati europei per un incidente in motorino. Frattura di tibia e perone, sembrava addirittura che dovesse chiudere col pugilato. «Mi stavo dimenticando di raccontartelo», sorride. Il suo carattere vive male gli imprevisti. «Se non ho programmi mi sento male. Percorro una linea che ho immaginato, fatta di traguardi, uno dopo l’altro. Alla fine, vorrei entrare in un corpo sportivo». Uno stipendio per praticare sport, una sicurezza. «Non voglio più fare i salti mortali per ottenere le cose». Nel frattempo va all’istituto alberghiero, ma le piacerebbe studiare Giurisprudenza all’università: «Magari diventare avvocato. Il giudice no, parla poco, io voglio comunicare». Lucia non toglie gli occhi dalla vita senza guantoni e paradenti. «Ho una forte personalità e questa è la mia dote». In tutto, al di là dello sport.
La morte del padre è l’altro scossone che ha destabilizzato i suoi ultimi mesi. Tunisino, musulmano, era un uomo molto religioso. Ed è stato un allenatore, ma di calcio, nel Paese d’origine. «Da bambina amavo la Bibbia. Mi legava a lui, che mi parlava di Mosè», dice Lucia. Se il rapporto con la fede non si è ancora ben risolto, nella boxe ha trovato un equilibrio. «Mi ha dato un filtro per esprimere la rabbia, un filtro come quello per le foto. Prima ero solo istintiva. C’era una linea a cui mancava un angolo per chiudersi, e il pugilato l’ha riempito con un puntino. Mi ha completata». In questo ha giocato un ruolo cruciale l’allenatore che l’ha scoperta. «Quando sono sul ring, oltre al mio battito, sento solo la sua voce. Io non mi fido mai, e in mister Nino ho trovato quello sguardo, qualcosa che ci avvicina al livello umano. Prima, nessuno aveva mai provato a modellarmi, ma solo a contenermi». In una pausa dagli allenamenti, Antonino lo confermerà: «Il suo vissuto ha qualcosa del mio».
I giovani di Librino trovano un riferimento e un calore nella Catania Ring, perché l’elemento familiare è un’anima della palestra. «Quand’è nato mio figlio l’abbiamo portato qua prima che a casa», spiega mister Nino. La Catania Ring è uno spazio familiare anche nella composizione. Il fondatore è il suocero di Antonino, il maestro benemerito Aroldo Donini, 61 anni. Da venticinque questo spazio è gran parte della sua vita. Si sveglia nel cuore della notte per lavorare come operatore ecologico, passa qui il resto del tempo. «Iniziai ad allenare a diciannove anni, quando scoprii che non potevo fare il pugile per problemi di vista. Spesso, invece di occuparmi dei miei figli, mi sono occupato dei ragazzi in palestra. Ma questi, fuori, si perdono», dice. «E vengo dalla strada pure io. Perciò qui paga solo chi può permetterselo, la metà ci viene gratis». Aroldo, la moglie Graziella, la figlia Adriana, Antonino, si trovano di continuo a raccogliere le confidenze dei giovani pugili, a consigliarli. Anche a cercare lavoro, garantire per loro. «Con i ragazzi ti ci attacchi. Il mio cruccio ora è Leonardo: è un mio figlio, come». Nei prossimi giorni sarà mister Aroldo ad accompagnarlo alla visita oculistica.
«Non ho mai avuto un padre accanto», dice per cominciare Leonardo Bajrami, 22 anni, quando gli si chiede di raccontarsi. È l’ultimo di sette figli, l’unico nato in Italia dopo la fuga dei genitori dalla Jugoslavia in guerra. Nella casa troppo piccola del quartiere San Cristoforo, dov’è cresciuto, a cena capitava di mangiare solo i biscotti con l’acqua. «Vedevo gente portare scarpe appena uscite, le mie avevano i buchi. Allora facevo il bulletto». Ha smesso presto di andare a scuola, fino a qualche anno fa parlava solo in dialetto. Scoprire il pugilato e incontrare la famiglia del Catania Ring gli ha cambiato le prospettive: Leonardo ha scoperto un talento, è diventato campione italiano in quattro diverse categorie, ha iniziato ad allenare i bambini. A diciott’anni è andato a vivere a Librino, ha ottenuto la cittadinanza e ha avuto una figlia. Poi è stato arrestato: «Una rissa, uno sbaglio che non rifarei mai». Ha scontato sei mesi di domiciliari e per i due anni seguenti gli sono stati concessi gli arresti lavorativi. Li ha svolti in palestra, riprendendo ad allenare i bambini, e trascorrere qualche ora fuori casa gli ha dato un senso.
Leonardo continua quest’attività, oggi che è libero, oltre a lavorare in una gastronomia. In primavera farà il suo esordio tra i professionisti. Prima della gara, come sempre, per caricarsi ascolterà pezzi neomelodici, «canzoni di innamorati». Accenna ai palazzi a torre che lo circondano, dice: «Non è il quartiere a fare malavitoso il ragazzo. Se ti comporti bene, del quartiere si parlerà bene». Poi indica la palestra: «Mi hanno salvato la vita. Davvero, senza di loro adesso stavo sottoterra. Mister Aroldo per me è un papà, mi ha dato l’amore che non avevo provato mai da bambino». C’è stato un momento in cui non avere la cittadinanza aveva messo Leonardo in difficoltà, e allora il maestro si era reso disponibile per adottarlo. Non fu necessario, poi, ma il gesto è rimasto tra di loro.