Il governo approva una direttiva di Bruxelles sull’esenzione dell’Imposta per le forniture militari ai paesi dell’Ue. Nel frattempo le onlus per comprare beni di prima necessità a disagiati e vittime di guerra continuano a pagarla. Anzi per loro è in arrivo una riforma fiscale peggiorativa

Lo Stato toglie I’Iva per le armi ma non per cibo e aiuti che vanno ai rifugiati

Uno Stato può fare uno sconto ai Paesi alleati che comprano armi e non farlo alle onlus che acquistano invece il pane per gli sfollati dalle guerre, donne, anziani e bambini su tutti? La risposta sembra molto semplice: no, non può accadere una cosa del genere. E invece questo paradosso diventerà a breve realtà. Perché da luglio l’Italia venderà armi ad altri Paesi europei con il taglio totale dell’Iva e allo stesso tempo però Caritas e altre onlus che già da mesi stanno accogliendo ad esempio i rifugiati ucraini vittime della guerra per dar loro viveri di prima necessità, come pane, acqua o latte, continueranno ad acquistare prodotti alimentari pagando l’Iva almeno al 4 per cento. E c’è di più: a breve entrerà in vigore una riforma che prevede che onlus e coop debbano aprire una partita Iva e dimostrare che servizi offrono e se possono avere uno sconto o esenzione dell’imposta.

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Le due cose, taglio dell’Iva per le armi e riforma fiscale terzo settore, chiaramente non sono collegate: ma per una coincidenza temporale singolare sono scattate quasi contemporaneamente. Facendo emergere però il paradosso: «Il governo con una mano taglia l’Iva per chi compra armi e con l’altra non solo non riduce l’Iva per le onlus che acquistano beni di prima necessità ma mette paletti e altri ostacoli al terzo settore facendolo avvicinare sempre più al comparto privato, con il rischio che molte organizzazioni da qui a breve chiuderanno», dice il senatore del Movimento 5 stelle Steni Di Piazza, che in commissione Finanze a Palazzo Madama ha protestato duramente contro la norma che tagliava l’imposta sul valore aggiunto per le armi. Ma perché il governo Draghi ha varato questo provvedimento? E cosa sta accadendo allo stesso tempo nel terzo settore?

La direttiva Ue sulle armi
Senza molto clamore, il 24 febbraio scorso, nello stesso giorno dell’invasione dell’Ucraina da parte dei russi, il governo Draghi ha approvato un decreto per recepire una direttiva di Bruxelles che prevede il taglio dell’Iva per gli stati dell’Unione europea che acquistano armi da produttori in Italia a partire da luglio: «Le esenzioni sono applicabili esclusivamente alle situazioni in cui le forze armate di uno Stato membro svolgono compiti direttamente connessi a uno sforzo di difesa nel quadro della politica di sicurezza e di difesa comune al di fuori dello Stato membro a cui appartengono. L’intervento intende allineare il trattamento dell’Iva applicabile agli sforzi di difesa intrapresi nell’ambito dell’Unione con il quadro già applicabile alla Nato», si legge nella relazione tecnica arrivata in Senato e che accompagna il provvedimento.

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L’esenzione dell’imposta non riguarda solo le armi ma tutta la fornitura di «beni e servizi» che l’Italia potrebbe dare a un Paese Ue e all’interno della difesa comunitaria: quindi anche benzina, acquisto prodotti alimentari per le mense militari e così via: «La direttiva oggetto di recepimento ha l’obiettivo di allineare il trattamento fiscale degli sforzi di difesa nell’ambito dell’Unione e della Nato nella massima misura possibile, in modo da migliorare le capacità europee nel settore della difesa e della gestione delle crisi nonché di potenziare la sicurezza dell’Ue», continua la relazione. «Sulla carta, per essere chiari, non si parla di vendita a Paesi extra Ue, ma non c’è alcun vincolo per cessioni a terzi da parte di Paesi Ue. Mi spiego meglio: se domani Polonia o Romania acquisteranno armi dall’Italia e li gireranno all’Ucraina in virtù di accordi bilaterali di difesa Ue, questo potrebbe avvenire con armi comprate in Italia a Iva zero. O quantomeno, nel decreto che ci è arrivato in Senato non c’è alcuna chiarezza su questo punto e quando l’abbiamo chiesta non ci è arrivata alcuna risposta da Palazzo Chigi», continua il senatore Di Piazza. Sulla carta quindi, in virtù di accordi Ue con l’Ucraina o tra singoli Stati europei e il governo di Zelensky, quelle stesse armi potrebbero essere date agli ucraini invasi dalla Russia di Vladimir Putin.

C’è poi il tema economico per le già non certo floride casse dello Stato. Sulle mancate entrate per le casse pubbliche la stessa relazione mette nero su bianco una cifra intorno agli 80 milioni, ma poi aggiunge che non ci sono elementi per una quantificazione reale del «danno» per lo Stato.

 

Fino ad oggi ogni Paese dell’Unione ha agito per conto proprio e anche con la nuova direttiva se la Francia, ad esempio, acquisterà armi dall’Italia per uso proprio e non nella cornice di difesa europea dovrà pagare l’Iva. Ma attenzione: come si sottolinea nella stessa relazione inviata alle Camere è stata appena introdotta la Cooperazione strutturata permanente anche in materia di difesa, e qui possono rientrare tutti gli acquisti di armi con esenzione Iva all’interno di progetti comunitari che a breve riguarderanno di fatto tutte le azioni di difesa e quindi qualsiasi acquisto di materiale bellico. Una cosa è certa: secondo la relazione appena consegnata dal governo alle Camere sulla vendita di armi prodotte in Italia, il nostro Paese ha venduto a Stati dell’Ue il 30 per cento degli armamenti realizzati da fabbriche italiane, per un valore di poco più di un miliardo di euro: su questa cifra l’Iva ha un valore di circa 200 milioni di euro.

 

La protesta del terzo settore
Mentre in Senato si discuteva la conversione del decreto sull’Iva per le armi, veniva però bocciato con parere contrario del governo perché non quantificava le minori entrate per lo Stato (proprio così) un emendamento che garantiva il terzo settore dal taglio dei crediti degli enti locali in dissesto. Un emendamento caldeggiato dal presidente del Movimento 5 stelle Giuseppe Conte. E qui è scattata la protesta del Terzo settore alle prese, tra l’altro, anche con il varo di una riforma fiscale che prevede ulteriori aggravi per le onlus che magari stanno accogliendo rifugiati ucraini e stanno acquistando prodotti di prima necessità pagando l’Iva al 4 per cento.

 

Il direttore della Caritas italiana, don Marco Pagniello, non usa giri di parole nel commentare quanto sta accadendo: «È evidente che qualsiasi persona di buon senso non può non percepire il tragico paradosso che fa sì che si debbano pagare tasse per dare da mangiare a persone in difficoltà ma non per vendere armi. E sarebbe tragicamente banale dire che tutto questo dovrebbe interrogare la coscienza di chiunque pensi che ogni azione debba tenere conto di una dimensione etica. Ma una politica senza sguardo lungo e profondo sulla realtà, e giustificata dall’emergenza, fa le cose più semplici senza guardare alle conseguenze e definendole ormai necessarie. Sul fronte del terzo settore la vicenda della fiscalità è grave. Non per la complessità della questione, ma per un problema di concezione del nuovo ente di terzo settore secondo la riforma. Credo che sia le spinte regolative europee sia uno strisciante processo di assimilazione al soggetto più rilevante del terzo settore – vale a dire la cooperazione – abbiano prodotto un corto circuito verso il riconoscimento delle realtà meno strutturate di questo mondo, vale a dire il volontariato e gli enti di matrice religiosa più piccoli».

 

Vanessa Pallucchi, portavoce del forum del terzo settore, fa un appello al governo Draghi per aiutare le cooperative e le onlus: «Penso che il taglio dell’Iva sulle armi sia una scelta che rivela una scommessa su un modello di relazione internazionale basato sugli armamenti. Un brutto segnale che premia processi non virtuosi, sostenibili, inclusivi. Noi non abbiamo mai fatto richiesta di non pagare le tasse, chiediamo che venga però riconosciuto il lavoro sussidiario che svolgiamo nelle comunità e nei territorio in favore dei più deboli e nell'interesse della collettività. O siamo un Paese maturo nel riconoscere anche fiscalmente il valore aggiunto che diamo con il nostro lavoro o insistiamo nella strada errata di trattarci come i soggetti del profit. Il paradosso lo abbiamo raggiunto con la norma che prevede che anche le piccole associazioni debbano aprire partita Iva. Norma, per fortuna, che entrerà in vigore fra un anno, ma che chiediamo che sia del tutto cancellata. Parliamo dell'associazionismo di prossimità, dei dopo scuola, delle bande musicali, delle pro loco: chiedere loro di aprire partita Iva significa obbligarle a una burocrazia e a costi che ne minano la sopravvivenza». Insomma, più armi e meno onlus, verrebbe da dire in maniera populista e demagogica. Anche se in fondo questa sembra la realtà.

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