La professoressa si è uccisa dando alle fiamme la sua roulotte. E qualche mese fa Sasha, 15enne transgender, ha deciso di buttarsi dal sesto piano. Ma anche dopo la loro morte, si continua a offenderne la memoria

Ho appreso della morte di Cloe Bianco attraverso la sua stessa voce, una dichiarazione di fine vita affidata al suo blog personale. Sono parole che pesano, che feriscono, perché disintegrano la dignità umana e annientano ogni possibilità di riscatto. Una morte che diventa quasi rito, festa macabra di chi vede nel proprio corpo un’anomalia da eliminare, uno sberleffo violento alla vita e alla società che l’ha condannata all’isolamento, alla marginalità, a vivere nella sua «piccola casa con le ruote», così come ha descritto quella roulotte data alle fiamme, quel perimetro di vita in cui viene consumata la sua ultima tragedia.

 

Cloe era una donna transgender, professoressa in un Istituto Tecnico di Agraria in provincia di Belluno, aveva espresso pubblicamente la sua identità di genere, in classe davanti ai suoi studenti, nel 2015. Il fatto scatenò polemiche e dibattiti, soprattutto tra gli insegnanti e i genitori, apprendiamo solo ora che dall’insegnamento Cloe era stata sospesa, demansionata in lavori di segreteria, un fatto anomalo su cui il ministero dell’Istruzione ha il dovere di accertare modalità e motivazioni.

 

Negli ultimi mesi anche un altro ragazzo transgender, il suo nome è Sasha, ha deciso di togliersi la vita a solo quindici anni. Il suo è stato un salto nel vuoto dal sesto piano della sua abitazione, a Catania, la città in cui viveva. Anche Sasha ha scelto di non vivere, ha sentito sulle sue spalle tutto il peso di una società ancorata su modelli troppi rigidi, pronta a giudicare e a non riconoscere il diritto di ognuno all’autodeterminazione. Due suicidi nel giro di qualche giorno, due episodi che gettano un’ombra nel mese del Pride e delle manifestazioni dell’orgoglio LGBTQ+.

Il ritratto
La matrice di Elena Donazzan
21/6/2022

Una professoressa e un giovanissimo studente transgender. Entrambi vittime di misgendering, anche dopo la loro morte si è continuato a parlare del «professore vestito di donna» e di una giovane «ragazzina morta suicida». Una mancanza di rispetto che palesa in modo chiaro quanto le persone transgender debbano ancora lottare per rivendicare le proprie identità, i propri corpi, i propri diritti. Soprattutto se persone non omologate e non conformi a schemi di genere prettamente binari.

 

C’è un campanello d’allarme da dover ascoltare. Oggi la fluidità di genere troneggia sulle copertine patinate di giornali, nella musica trap, nei costumi e nella moda, influenza i giovanissimi e scardina i parametri di genere anche tra le persone cisgender. Questa piccola rivoluzione di costume nasconde però un sommerso drammatico e stratificato, soprattutto nelle province italiane. Un mese fa, in Calabria, un ragazzino è stato pestato pubblicamente da suo zio, e un gruppo di uomini, per aver osato uscire con le amiche con un nastro arcobaleno legato al suo zaino. Un affronto indicibile che gli ha comportato la frattura di quattro costole, la deviazione del setto nasale e varie lesioni. Sempre i primi di giugno, una giovane sex worker transgender viene uccisa con due colpi di pistola a Marinella di Sarzana, il suo nome è Camilla e il suo corpo è stato ritrovato senza vita in una zona piena di sassi e rovi. Quattro episodi drammatici nel giro di un mese. Eppure c’è chi sostiene che una legge contro l’omotransfobia in Italia non è una priorità, né un emergenza.

 

Sono anche io un insegnante, sono una persona non binaria, vivo serenamente la mia fluidità di genere senza dovermi incasellare in un genere o nella scelta di un pronome che possa determinare la complessità del mio essere.

 

La scuola è il luogo deputato all’incontro dell’altro, è qui che si mette in pratica la vera inclusività sociale. È nella scuola che si costruiscono le coscienze e si formano dei liberi cittadini. Formazione di individui, prima ancora dei contenuti e dei programmi ministeriali, è questa la vera missione di noi insegnanti. 

Qual è la prima competenza che un professore deve maturare nella sua relazione con gli studenti? L’autenticità. Essere veri, autentici, mostrare le proprie fragilità. È il dono più bello che possiamo dare ad uno studente, soprattutto in una società che ci vuole sempre al primo posto, competitivi, performanti. Spogliamoci degli abiti del professore e mostriamoci per quello che siamo. La scuola deve farsi promotrice di questo cambiamento, perché la sua ricchezza, il suo compito sociale è quello di formare cittadini liberi da pregiudizi e da ogni forma di sentimento omotransfobico. Ed è grave che esponenti pubblici delle istituzioni siano i primi ad alimentare l’odio e la diffidenza verso chi decide di fare questo passo e vivere la propria identità di genere nello spazio pubblico e sociale di un posto di lavoro. È il caso di Elena Donazzan, la prima a scagliarsi nel 2015 contro la scelta di Cloe e farla oggetto di una vera e propria gogna mediatica. Ex missina, assessore all’istruzione, formazione, lavoro e pari opportunità del Veneto, in quota Fratelli D’Italia. Una donna che vanta un curriculum degno delle peggiori destre nazionaliste, xenofobe e sessiste: dalle foto alla commemorazione della X Mas, alla difesa degli alpini sul caso delle molestie, alle battaglie contro i libri “gender”. L’assessora non ha avuto il buon senso di tacere neanche dopo la morte di Cloe, ha continuato ad infangare il suo nome definendola «un uomo vestito da donna», ribadendo le sue posizioni contro le scelte di Cloe e il suo coming out tra i banchi di scuola. Non solo, oggi l’assessora si dichiara vittima di minacce di morte e si scaglia contro la comunità LGBTQ+ responsabile di aver abbandonato Cloe al suo tragico destino. La stessa Giorgia Meloni dovrebbe assumersi la responsabilità delle sue parole, nella sua arringa al popolo di Vox, in Spagna. Sono parole pericolose che cavalcano e alimentano l’odio verso l’intera comunità, pronunciate dal leader di un partito che secondo i sondaggi politici guida ormai la coalizione di centrodestra. «Sì alla famiglia naturale, no alla lobby Lgbt. Sì all’identità sessuale, no all’ideologia di genere, sì alla cultura della vita, non a quella della morte». È l’ennesimo spot elettorale che a suon di claim è pronto a diventare il nuovo tormentone estivo dopo il gettonassimo «Io sono Giorgia, sono una madre, sono una donna, cristiana».

 

L’Italia ha il triste primato per il maggior numero di vittime della violenza transonica in Europa. Oggi ci apprestiamo a combattere un futuro incerto, le nostre battaglie sono ancora più urgenti e siamo pronte a combattere per rivendicare il nostro diritto ad esistere. Il Ddl Zan è stato affossato, dall’ala cattolica della sinistra parlamentare e dalle destre, proprio per aver provato a tutelare le persone transgender dai crimini di odio e dalle violenze di genere. La comunità T. non esiste, non ha alcuna visibilità politica e sociale, viene troppo spesso riconosciuta solo ed esclusivamente in qualità di vittima. Ma esistono transgender vive, professioniste, artiste, dottori, avvocati, di cui nessuno parla. Ed è questa marginalità sociale ad uccidere. È questo senso di estraneità a renderci fragili. È questo senso di non appartenenza, corpi estranei al tessuto sociale, a piegarci le gambe. Spesso viviamo questa condizione di sfiducia, paura di non essere all’altezza, paura di sbagliare. È perché siamo cresciute in un mondo a cui ci siamo sentite da sempre estranee. Ci siamo isolate, ci siamo nascoste, ma abbiamo anche deciso di stringere i denti e ribellarci, perché ne vale la nostra sopravvivenza e quella dei nostri figli. Noi crediamo e lottiamo per un mondo migliore.

 

Chiuderei questo articolo con le parole di Cloe, estrapolate sempre dal suo blog, è un inno alla libertà e alla vita. Mi piace ricordarla così, Cloe.

 

«Guardami. Io ci sono. Sono qui. Esisto. Io sto parlando, m’ascolti? Non vuoi sentirmi? Allora alzerò la voce. Non mi vuoi vedere? Allora diventerò sempre più appariscente. Sono rimasta velata per molto, troppo tempo. Ora basta. Voglio poter vivere i miei vissuti interiori e il mio corpo, come desidero ora e come in futuro sentirò corrispondere al desiderio che emergerà. Ama il mio genere, amo il mio corpo. Tu amale queste realtà o perlomeno rispettale. Voglio poter vivere ogni spazio, pubblico e privato, sentendomi a casa mia. Sono una persona che ha una caratteristica rara. È una bellezza, perché tu vuoi che me ne vergogni?». 

 

*Francesco Costabile è un regista, autore del film “Una Femmina”