Persino la violenza è discriminatoria nei confronti delle donne. Dice l'Istat che negli ultimi dieci anni gli omicidi si sono quasi dimezzati, passando da 0,8 casi ogni centomila abitanti nel 2012 a 0,5 nel 2019 (c'è il dato 2021?). Tuttavia, se consideriamo i femminicidi, ovvero l'uccisione violenta di donne per mano di un famigliare o di qualcuno che ha un legame affettivo con la vittima, allora le morti passano dal 30 al 50 per cento nell'ultimo decennio. Si tratta di una media di una donna uccisa ogni tre giorni. Più di mille donne dal 2012 al 2020, con una media di 115 donne uccise ogni anno.
Un'anomalia che la Scuola Superiore Universitaria aquilana Gran Sasso Science Institute (Gssi) ha indagato per capirne le cause e provare ad abbozzare una soluzione attraverso l'inchiesta scientifica “The Councilwoman's Tale. Countering Intimate Partner Homicides by electing women in local councils”, “Il racconto della Consigliera. Contrastare i femminicidi eleggendo più donne nei consigli comunali”, condotta dalla ricercatrice ed economista Daria Denti e del prorettore alla Ricerca del Gssi, Alessandra Faggian. L'Espresso racconta in anteprima l'esito di quell'indagine. Già il titolo svela molto: «Abbiamo scoperto che nei comuni in cui sono state elette più donne nei consigli comunali, il volume di violenze su di loro si attenua», racconta la ricercatrice Daria Denti. Ma andiamo con ordine.
La prima novità di questa indagine è che per la prima volta è stato realizzato un database comunale dei casi di violenza mortale ai danni di donne. Finora, infatti, era possibile avere contezza dei femminicidi solo grazie ai dati raccolti dall'Istat e dal Ministero dell’Interno, che tuttavia sono su base nazionale, al più regionale. Risultato: «Grazie a questo database è stato possibile evidenziare che esistono alcuni comuni, alcuni distretti, in cui si concentrano maggiormente i crimini, ma complessivamente non è possibile dire che ci siano dei pattern geografici, come una distinzione Nord-Sud o aree urbane-aree rurali. Ci siamo quindi domandate perché in alcuni municipi si concentra un altro numero di casi e perché in altri non si verifichino».
Le ricercatrici hanno scoperto che i femminicidi non si spiegano guardando la situazione reddituale della famiglia. Nonostante vi sia un'ampia letteratura scientifica di origine americana che imputa i femminicidi a situazioni di disagio economico che colpiscono la coppia o la famiglia, come la perdita del lavoro e disuguaglianze reddituali fra partner, il fenomeno italiano sembra rispondere ad altre motivazioni: «Non c'è corrispondenza fra questi due dati in Italia, quindi le ragioni sembrano essere altre. Non c'è neppure corrispondenza con il grado di istruzione, la tipologia di nucleo familiare, il tasso di crimini violenti nel luogo di residenza, la percentuale di popolazione straniera.
Un'altra ipotesi vagliata è quella degli stereotipi di genere, ovvero i pregiudizi radicati nella cultura di un popolo, secondo cui il corpo della donna può essere oggetto di maltrattamenti per il semplice motivo che c'è un retaggio culturale che le assegna un ruolo inferiore rispetto all’uomo. Bingo. In Italia funziona proprio così: «Il radicamento di una cultura machista e di norme di genere, ovvero di regole ataviche secondo cui l'uomo ha maggiore valore della donna, favoriscono i femminicidi. Si tratta di un grave problema, perché gli stereotipi culturali si instillano profondamente nella società e sono difficilissimi da eradicare, come hanno dimostrato diversi studi condotti da importanti economisti italiani, a partire da Paola Giuliano ed Alberto Alesina, con il loro studio del 2013, “Le donne e l'Aratro”», dice Denti.
Alesina e Giuliano, studiando i cambiamenti delle millenarie pratiche agricole, avevano scoperto che nelle aree in cui l'innovazione in agricoltura aveva estromesso le donne dal lavoro nei campi, relegandole a un ruolo domestico, queste erano più soggette a stereotipi di genere anche a distanza di secoli.
«Abbiamo creato una mappa delle disuguaglianze storiche che evidenzia le aree più soggette agli stereotipi di genere e l’abbiamo sovrapposta alla nostra mappa dei femminicidi e abbiamo scoperto che i dati corrispondevano, dimostrando come l'uccisione di donne ha ragioni storiche molto profonde e siano quindi difficili da sradicare», conferma Denti.
Dunque, come sconfiggere il pregiudizio di genere al fine di ridurre i femminicidi?
La seconda parte della ricerca si concentra sull'importanza dell'empowerment femminile nella società, ovvero come la possibilità per la donna di emanciparsi, attraverso il lavoro, lo studio, la politica, e di apparire con un ruolo di rilievo o di potere nella società civile favorisce un cambio culturale complessivo, fino alla riduzione della violenza estrema sulle donne.
Le ricercatrici hanno infatti evidenziato che nei comuni in cui ci sono più donne nei consigli comunali il numero di femminicidi diminuisce drasticamente: «Succede soprattutto nei comuni in cui le donne siedono più numerose fra i consiglieri comunali. Ci siamo domandati se questo effetto fosse dovuto a maggiori investimenti nelle politiche sociali stimolati da una maggiore presenza di donne elette, ma abbiamo scoperto che no, in realtà è il riconoscimento che le donne sono capaci soggetti istituzionali da parte della comuni a fare la differenza », dice la ricercatrice, che continua: «Nonostante gli stereotipi di genere siano duri a morire, abbiamo scoperto che nei comuni al di sopra dei 5mila abitanti, a cui dal 2013 si applica la norma per la parità di genere per favorire la presenza femminile nei consigli comunali sono aumentate le donne elette e diminuiti i femminicidi, a parità di altre condizioni tra cui le richieste di aiuto per violenza di genere».
In effetti in quella tornata elettorale il numero di donne nei comuni è aumentato di ben 22 punti percentuali rispetto alla media dei comuni con meno di 5mila abitanti. L’aumento delle donne ingaggiate nelle liste durante le campagne elettorali consente di aggiornare stereotipi e preconcetti attraverso il reale agire delle donne candidate: «Abbiamo osservato che nei comuni con più di cinquemila abitanti, dal 2013 a oggi, l’aumento dell’1% delle donne elette riduce l’incidenza dei femminicidi del 80 per cento. Al contrario non si è verificata una simile riduzione né nei comuni al di sotto dei cinquemila abitanti, dove non esisteva tale norma, né nei comuni sopra ai 5000 abitanti fino a quando non è arrivata la scadenza amministrativa che ha imposto di votare con le norme per la parità di genere», hanno scoperto le ricercatrici. Un dato importante perché mette la parola fine rispetto all'utilità delle quote rosa in politica e in economia: «La nostra indagine dimostra come l'applicazione delle quote di genere favorisce una riduzione dei casi di femminicidio, perché modifica alla radice la cultura e la consapevolezza della popolazione nei confronti delle donne. L'effetto si riscontra nei consigli comunali, rispetto alle istituzioni politiche regionali o nazionali, perché quella è l'istituzione più prossima, quella in cui ci si riconosce di più che riflette meglio prospettiva di genere di una comunità. Altri studi, su paesi diversi dall’Italia, hanno mostrato che ci sia anche un effetto fra la presenza di consigliere comunali e la spinta a una maggiore denuncia nei confronti del partner violento: di nuovo, la presenza di donne nelle istituzioni locali sembra agire facendo sentire le donne più riconosciute, aiutandole a superare alcune delle barriere che bloccano le denunce ».
L'indagine scientifica non si ferma qui. Il prossimo passo sarà quello di analizzare l'effetto delle quote rosa nel mondo economico, per verificare se la legge Golfo-Mosca del 2011, che ha istituito le quote rosa, ovvero che almeno il 30 per cento dei membri dei consigli di amministrazione e dei collegi sindacali delle società quotate in borsa e delle società a controllo pubblico sia riservato al genere meno rappresentato, cioè alle donne: «Andremo a valutare l'impatto delle quote rosa sulla cultura di genere», promette l'economista Daria Denti.