È grazie a Fabio Roia, soprannominato “il giudice delle donne”, che il Tribunale di Milano ha rafforzato la “squadra“ dei giudici che si occupano di "soggetti deboli-vulnerabili". Di fronte a una mole insostenibile di processi, sia pendenti che in arrivo, nelle due sezioni a Milano che trattano violenze di genere, procedimenti da “codice rosso“ e maltrattamenti in famiglia è stato il presidente vicario, fra i più preparati magistrati italiani sul tema della violenza di genere, a disporre "l’assegnazione urgente degli affari di competenza delle sezioni V e IX penale anche alla sezione XI". Lo scopo è "abbattere il tempo", dice, cioè velocizzare i processi, che stavano rallentando dato l’ingolfamento che si è creato nelle due sole sezioni, costrette a far fronte a numeri enormi rispetto a quelle competenti sulle altre materie. Nei primi 6 mesi dell’anno si è registrato un boom, con oltre 140 procedimenti davanti al Tribunale collegiale e quasi 1.700 nuovi procedimenti monocratici, con un solo giudice. «Un segnale – spiega a L’Espresso - cerchiamo di fare quello che possiamo con le risorse a disposizione».
Presidente Roia questo rafforzamento è dettato da numeri in forte crescita, in una città che vede ormai le denunce dei reati di violenze quasi al livello di quelli economici. Le donne denunciano di più per una questione di consapevolezza oppure ci troviamo di fronte a un incremento vero della violenza di genere?
«Per la mia esperienza le posso dire che quando c’è una emersione di denunce siamo di fronte a un fattore positivo, cioè le donne denunciano di più. Bisogna capire poi se c’è un abbattimento del sommerso e a questa domanda non le posso rispondere, andrebbero fatti degli studi diversi di approfondimento. Quando registriamo un aumento di denunce per violenze di genere in situazioni giudiziarie o comunque in circuito di protezione della rete, riteniamo ci sia un abbattimento del sommerso e quindi un fenomeno di emersione facilitato da una consapevolezza da parte delle donne».
Bisogna anche considerare che Milano ha un buon tessuto di centri anti-violenza e sul tema c’è una formazione costante su tutti i livelli. Insomma, qui il sistema funziona
«Certamente, Milano ha un modello, sia a livello comunale che regionale, di rete dell’accoglienza ben collaudato. I centri anti-violenza risalgono agli inizi degli anni 90. Poi si sono sviluppate competenze a livello di reti comunali, consultori. Adesso a livello di trattamento di uomini violenti ci sono centri che hanno messo in campo grandi specializzazioni. Questo favorisce la fiducia delle donne nelle istituzioni e non è una cosa scontata».
Lei crede che possa diventare un modello per le altre realtà italiane?
«Ovviamente ognuno deve fare i conti con le risorse che ha a disposizione. Ci sono tribunali che hanno dimensione metropolitana che possono contare su risorse maggiori. Ma diciamo che il modello standard del tribunale italiano è "medio-piccolo" e quindi le risorse sono minori. Ma qui l’obiettivo a destinare risorse in questo settore e vorrei aggiungere un’altra considerazione»
Mi dica
«Abbiamo verificato da studi del Consiglio Superiore della Magistratura che laddove il tempo di risposta giudiziaria è più ritardato, si riscontrano fenomeni involontari di "vittimizzazione secondaria" ma soprattutto aumentano poi il numero delle assoluzioni. Insomma c’è un elemento di correlazione fra il tempo e la necessità di tutelare la donna nel processo penale».
Può farmi qualche esempio?
«Prendiamo per ipotesi una donna che viene sentita dopo tre o quattro anni dalla prima denuncia. Evidentemente ci troveremo di fronte a un soggetto completamente diverso. Magari ha sciolto il legame violento o non ha interesse a perseguire l’uomo perché questo si è allontanato o comunque, lei è riuscita a liberarsi dal legame tossico e allora aumentano i numeri di assoluzioni. O viceversa, se i tempi si allungano ci troviamo di fronte a casi di esposizione della donna a situazioni come ritrattazione, pressione. Questo è una forma involontaria di vittimizzazione. Quindi il fatto di destinare maggiori risorse serve come protezione della donna che è in una situazione di fragilità e che deve affrontare una situazione processuale penale già non semplice. Sono prescrizioni che derivano da fonti sovranazionali come la convenzione di Istanbul oppure dall'Unione Europea».
Di recente su L'Espresso abbiamo raccontato di una macchina della giustizia in ginocchio. Nell’organico mancano 1.442 magistrati e ci vorranno tre anni per vedere all’opera i nuovi assunti. E così i processi vanno al macero. Questo problema non pesa su Milano?
«Gli uffici giudiziari di Milano soffrono come al livello nazionale e c'è anche qui un problema di risorse. All’ultimo concorso per i giovani magistrati è passato solo il 5%. E come avete scritto anche voi, abbiamo colleghi che tendono ad andare in pensione presto. Certamente è necessario investire sulle risorse ma è una pre-condizione e non può essere una scusante: se non ci sono risorse, non si fanno buone cose. No, bisogna cercare di fare quello che si può con le risorse a disposizione. Soprattutto su temi che indicano una spia di civiltà elevata come quelli della tutela delle donne che sono soggetti fragili, non in assoluto ma nella vicenda processuale».
E a proposito di riforme che hanno rallentato il sistema giustizia, non pensa che l’improcedibilità di Cartabia possa essere un ostacolo per i reati di violenza di genere?
«No, su queste fattispecie di reato sono stati fatti tanti interventi normativi. Adesso è finita la legislatura ma c’era un ottimo pacchetto presentato dalle ministre giustizia e pari opportunità in occasione del 25 novembre 2021 che non verrà approvato. Abbiamo dei limiti per questi reati che ci aiutano a evitare la maglia della prescrizione. Quello che incide veramente è il tempo. Sulla tutela della persona offesa che è una persona fragile il processo è sempre un’ansia, sempre un'emozione, raccontare violenze subite da una persona con la quale c’era un legame affettivo tossico, il fattore tempo deve essere eliminato per tutelare una persona offesa».
E non pensa che oltre il tempo, serva anche una competenza specifica da un punto di vista culturale che consenta ai magistrati di riconoscere la violenza di genere?
«Questa è una precondizione. Il Csm ha fatto risoluzioni che per noi sono vincolanti sul piano organizzativo: chi si occupa di questi temi deve acquisire competenze che non sono solo giuridiche. Ci sono dei tratti comuni che vanno riconosciuti: sono soggetti ambivalenti nei sentimenti, fragili, si presentano male perché sono in una situazione di sofferenza e ansia. Serve conoscenza per valutare l’attendibilità della dichiarazione e della coerenza nel racconto. Bisogna avere la capacità di andare a prendere nozioni che non stanno nel diritto ma in altre discipline come la psicologia forense, la medicina legale, bisogna sapere cos’è il ciclo della violenza e la sindrome della donna maltratta. Tutto questo non lo si impara nelle università o nelle facoltà di giurisprudenza o nei corsi post laurea ma bisogna apprendere tutto ciò da operatrici dei centri antiviolenza e dalle psicologhe che hanno a che fare con le donne. Questo è il senso della specializzazione, un fondamentale».