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Lo spreco della bellezza: dialogo tra Giuseppe Leone e Domenico Dolce
Il fotografo e lo stilista si incontrano per lavoro in Sicilia. Ne nasce un dialogo sulle origini, sul senso del talento e sul viaggio da emigranti. Sul Sud e il Nord e su un’Italia che sfregia la memoria
Vittorio Nisticò, mitico direttore del giornale “L’Ora” distingueva i siciliani in due categorie: quelli di scoglio e quelli di mare aperto. Siciliani che si ostinano a rimanere nell’Isola e isolani che devono allontanarsene per dare il meglio di sé. Alla prima categoria appartiene il fotografo ragusano Giuseppe Leone che con caparbia determinazione continua a ritrarre la Sicilia da quasi settanta anni. Alla seconda Domenico Dolce, stilista mondiale che ha scalato i vertici del successo trasferendosi a Milano. Due personaggi che hanno incrociato le loro storie professionali.
Leone è l’autore di una celebre campagna pubblicitaria che si è avvalsa delle sue immagini fotografiche per raccontare il concetto di Sicilia, cifra caratteristica della maison Dolce & Gabbana. Una collaborazione che si traduce in una conversazione in Sicilia di vittoriniana memoria. Il pretesto un contest fotografico organizzato sulle Madonie dalla Fondazione P.G. 5 Cuori. Un’organizzazione voluta dallo stilista siciliano che ha sede a Polizzi Generosa, suo paese natale. Giuseppe Leone è stato chiamato a presiedere il concorso fotografico a cui hanno partecipato giovani talenti della fotografia. Nel corso di una pausa pranzo i due artisti siciliani hanno intessuto un confronto sulla Sicilia intesa come metafora, per dirla con il titolo di un libro di Leonardo Sciascia che Leone ha fotografato per molti anni, fino al suo ultimo ritratto.
«Ho scoperto di essere siciliano a Milano», esordisce con velata ironia Domenico Dolce. «Sembra paradossale, ma fino a quando sono rimasto in Sicilia non avevo coscienza di quanto questo luogo mi avesse profondamente segnato». Il racconto della partenza e dell’arrivo nel capoluogo lombardo assume la connotazione di un fotogramma di Giuseppe Tornatore. «Dal mio paese mi ero trasferito a Palermo per frequentare il liceo, anni terribili. A Palermo non mi sentivo a mio agio, mi metteva ansia. I miei compagni di classe privi di ogni complicità, tutti volti a primeggiare, io odio le competizioni. Inizialmente avevo deciso di fare l’architetto. Un pomeriggio mi sono ritrovato nella sede dell’allora Sip in piazza Martiri d’Ungheria. Ho scelto un elenco telefonico di Milano, non erano ancora i tempi di Internet. Trovai l’indirizzo di una casa di moda milanese, la Marangoni e decisi di partire. A Milano sono sbarcato il 15 aprile del 1978. Chiesi subito di accompagnarmi in piazza Duomo. Era una giornata insolita ammantata da una luce speciale, un’atmosfera sospesa. Alzai lo sguardo verso la Madonnina esprimendo il desiderio di farmi rimanere in quella città. Quasi l’invocazione di un miracolo. E così è stato. Io credo nel destino, come Ulisse che si lascia guidare dal Fato».
Anche per Giuseppe Leone Milano doveva diventare approdo di ragione, come era accaduto per schiere di siciliani, da Verga a Vittorini. «Quando cominciai a pubblicare i miei primi libri di successo per la Bompiani fui tentato di trasferirmi a Milano, di lasciare la Sicilia. Ma era più forte di me, non riuscivo a sopportare l’idea di abbandonarla. Scelsi di fare ritorno a Ragusa. Percorrendo l’Isola in lungo e largo ho testimoniato ogni avvenimento, immortalando i grandi personaggi e l’umanità che la popolava. Avevo scelto di testimoniare le trasformazioni radicali che si annunciavano seguendo anche l’impegno del sociologo pacifista Danilo Dolci. Era la fine della cultura contadina, la rimozione violenta e veloce che ha spazzato via tradizioni, antichi mestieri, sapienze arcaiche, deturpato il paesaggio. Fotografavo con ossessione, prima che uno dei due, o me o il paesaggio sparisse, come scriveva il mio amico Vincenzo Consolo».
Il capoluogo lombardo è il luogo che accomuna i due artisti siciliani. Sottolinea Domenico Dolce: «A Milano ho preso consapevolezza di chi ero veramente. Lì non contava chi ero, quali fossero i miei orientamenti sessuali, religiosi. Contava solo la determinazione, il talento, la voglia di fare. Quella città è stata per me una sorta di Stargate, un passaggio immediato, una porta di accesso verso un altro mondo. Non è stato facile, ho impiegato due anni per integrarmi. Una terribile insegnante della scuola di moda che frequentavo mi aveva consigliato di fare ritorno in Sicilia. Io ho abbassato il capo, non per sottomettermi. Ma come mi avevano insegnato i miei nonni, per lavorare ancora più duramente e non mollare. Dovevo dimostrare che potevo farcela. Ho fatto le mie prime ferie a 35 anni. Ho sgobbato duro. Il successo è fatto di rinunce. A Milano ho imparato che il talento non basta, serve disciplina. Ho imparato a non arrivare in ritardo perché non ti aspetta nessuno. Poi, ad un certo punto, mi sono reso conto di essere diventato milanese. Correvo anche se non ero in ritardo. Dunque ero diventato milanese di patria e siciliano di cuore».
Milano città che sa anche essere spietata. Anche per il couturier siciliano non sono mancati momenti di inquietudine. Un lungo contenzioso amministrativo e giudiziario con il Fisco si è concluso dopo qualche anno con un’assoluzione. Dunque Milano luogo di scontro e di riscontro.
Uno scenario professionale diametralmente opposto a quello in cui ha operato Giuseppe Leone. «Ho visto progressivamente chiudere molte case editrici siciliane, nomi di grande prestigio. Le committenze dei giornali e delle riviste sono sparite, travolte dall’avvento del digitale. Fare il fotografo in Sicilia significa fare i conti con una committenza pubblica inaffidabile. La spaventosa macchina burocratica, la politica ineffabile, la mancanza di grandi sponsor. Un calvario nel corso del quale ho assistito sgomento allo spopolarsi dei borghi, dei paesi dell’entroterra. Le coste aggredite dal cemento, le case abusive costruite sul demanio pubblico. Ho cercato di denunciare fotografando. Un grido d’allarme spesso inascoltato. Nel mio archivio di quasi cinquecentomila scatti è scritta la vita di questo scorcio di secolo. A guardarla bene, si legge la storia recente di questa nazione. I contadini meridionali che affollavano i treni che li avrebbero deportati in grigie periferie urbane, trasformandoli da braccianti in operai. Ho denunciato lo scempio edilizio che ha dato vita a periferie anonime svuotando i centri storici. Ho dato volto ai grandi artisti come Sciascia, Bufalino, Consolo, Guccione, Sellerio, solo per citarne alcuni. Erano voci di dissenso, si producevano in una costante denuncia sociale e rivestivano ruoli di primo piano dello scenario artistico e culturale italiano».
Sembra rafforzare questa analisi il convincimento dello stilista siciliano: «Pagheremo a caro prezzo l’illusione della globalizzazione. L’illusione del tutto possibile, tutto facile. La pagheremo con una progressiva perdita di identità. Ai miei nipoti chiedo ogni anno di tornare a Polizzi Generosa nonostante vivano in giro per il mondo. In Oriente si dice che quando non sai dove andare devi fermarti e guardare da dove sei partito. E io sono partito da un luogo dove convivevano la magia del mondo aristocratico e la delicatezza di quello contadino. Ho avuto la fortuna di accompagnare mio padre nella sua attività di sarto. Andavamo dai baroni Carpinello. Ricordo il rintocco della campana alle due del pomeriggio, la baronessa che sottovoce ci offriva dolci e rosolio. La sera, a casa, il picchiare del battente annunciava la visita dei contadini. Venivano dopo il lavoro per la prova dell’abito e registravo la stessa aristocratica delicatezza e gentilezza d’animo. Poi è stato l’avvento della borghesia, il tripudio sguaiato, privo di classe. La borghesia che non era né inferno, né paradiso, un mondo di Purgatorio che vaga nel buio perché ha rinnegato le sue origini».
Il mancato sviluppo del Meridione è la questione irrisolta e la grande opportunità per questa nazione. Aggiunge con rassegnata amarezza Giuseppe Leone: «Attendo ormai da decenni un moto di orgoglio dei siciliani. Una regione che negli ultimi anni è stata governata da una classe dirigente scadente, non all’altezza della situazione. Mi domando come è possibile che tutto il mondo sia andato avanti e noi siamo rimasti gli ultimi della classe. Mancano le grandi opere di collegamento. Possiamo contare su ferrovie e autostrade degne di un paese del Terzo Mondo. Assistiamo sgomenti alle pratiche di spreco di ogni risorsa, economica e ambientale. Lasciati soli a fronteggiare l’emergenza migranti in maniera indecorosa. La questione meridionale sembra scomparsa da ogni agenda politica. Giovani talenti che dovrebbero essere la classe dirigente meridionale che va via e non ritornerà più. La perdita definitiva di mestieri antichi, del grande artigianato, della bellezza, della memoria».
Gli fa eco Domenico Dolce: «Per me l’agire politico è la quotidianità. Forse è venuto il momento di sciogliere anche questo consolidato: che la colpa sia riconducibile solo alla politica. Politica per me è prima di tutto educazione civica, comportamento quotidiano, rispetto della comunità. La maleducazione, il cattivo gusto, trionfano imperanti perché è crollato il mondo della scuola. Insegnanti dileggiati, pagati male. Politica è investire sulla formazione dei giovani, educarli alla bellezza del nostro patrimonio artistico. Non servono solo le grandi opere, servono interventi mirati. La verità sui siciliani è che non apprezziamo la Sicilia perché non è opera nostra. Tutto quello che riceviamo gratuitamente rischia di non avere valore. Sia esso un bell’abito, un dipinto o un tempio greco. Non riusciamo a governare la bellezza ereditata e valorizzarla adeguatamente. La Sicilia è stata inventata dagli altri. Da quelli che l’hanno edificata e da quelli che l’hanno raccontata. Non abbiamo dato il la a queste meraviglie. Ecco perché i siciliani chiudono gli occhi per non vedere la realtà, bella o brutta».