L’anniversario
5 settembre 1972, il sangue sulle Olimpiadi a Monaco. Così una generazione ha perduto l’innocenza
Cinquant’anni fa i terroristi palestinesi di Settembre Nero sequestrarono e uccisero gli atleti israeliani sotto gli occhi del mondo che seguiva i Giochi. Un evento che ha cambiato la storia
Ogni generazione, o frazione di essa, ha la sua perdita dell’innocenza. Per noi, nati alla fine degli Anni Cinquanta e troppo piccoli per piazza Fontana a differenza dei fratelli maggiori (l’avremmo dolorosamente scoperta a posteriori), fu il 5 settembre 1972 di Monaco di Baviera. Sugli schermi delle televisioni, ancora in bianco e nero mentre solo per i più fortunati muoveva passi il colore, apparve un uomo travisato con una calzamaglia. Era Belfagor che usciva dalla fiction per incarnarsi nel villaggio olimpico della città tedesca a rovinare l’ultimo scorcio felice dell’estate spensierata, di noia e cicale, sulla falsariga dell’“Azzurro” di Adriano Celentano.
Il calcio non era ancora così invasivo, ci si poteva appassionare, o affezionare, e non solo per il breve spazio del trionfo, ad atleti di altri sport. Immedesimarsi persino. E noi eravamo Angelo Scalzone, oro nel tiro fossa, Dibiasi-Cagnotto nei tuffi. Eravamo la minuta e fragile, al cospetto delle Amazzoni da piscina, Novella Calligaris prima medaglia femminile, un argento, in piscina. Eravamo Pietro Mennea, un bronzo nei 200 metri, e Paola Pigni stesso risultato nei 1500 metri. Né disdegnavamo i campioni stranieri che pure sollecitavano la fantasia. Il Mark Spitz, americano, sette ori, record, nel nuoto, che regalò una fortuna critica supplementare ai baffi già in declino; Valerij Borzov, russo, il più veloce al mondo nella specialità regina, i cento metri piani; l’esotico ugandese Akii-Bua, oro e primato del mondo nei 400 ostacoli; la ginnasta sovietica tascabile Olga Korbut, anche per l’umanità delle sue lacrime dopo un errore alle parallele asimmetriche; il magnifico pugile cubano Teofilo Stevenson.
Le giornate di Olimpia erano un conto alla rovescia prima dell’inizio dell’anno scolastico, se non avevamo «neanche un prete per chiacchierare», ci regalavano una passione collettiva per eroi estranei alle figurine Panini, con il fermento dello stupore per la prima partecipazione consapevole a un evento mondiale. Finché arrivò lui, l’uomo mascherato, a simboleggiare che la festa era finita. Entrarono nel nostro vocabolario, e anche sui muri delle città persino (!) a fini elogiativi, parole come “Settembre nero”, l’organizzazione terroristica palestinese a cui apparteneva l’incappucciato. Parole come “Israele”, che conoscevamo solo per semplici cognizioni geografiche. Spostammo, repentinamente, la nostra attenzione dalle piste, dalle palestre e dai campi alla politica internazionale. Spinti da quell’immagine, al contempo luciferina e affascinante, che le televisioni mandavano e rimandavano, che ci impauriva ma ci soggiogava. Chi era il terrorista, che si affacciava a un balcone, guardava di sotto con un gesto di quotidiana banalità, che era prepotentemente entrato nei nostri giochi di ragazzi neanche fosse il cattivo delle fiabe? Di più: aveva violato la tregua olimpica, un tabù per noi che eravamo ignari circa quanto era successo quattro anni prima in Messico con gli spari sui manifestanti nella capitale che ospitava la precedente edizione.
“Settembre nero” era il nome di un gruppo terroristico che prese il nome dal mese dell’offensiva scatenata nel 1970 da re Hussein di Giordania contro la guerriglia palestinese presente nel suo Paese, resterà attivo fino al 1973. Contribuirono a fondarlo alcuni dirigenti di al-Fatah, come Abu Jidah, tra i principali collaboratori di Yasser Arafat, o come Abu Daoud che in seguito confessò il suo ruolo nell'ideazione dell'attacco di Monaco. I suoi dirigenti presero come un affronto il rifiuto del Cio di rispondere a una lettera della Federazione Giovanile della Palestina di partecipare con una delegazione ai Giochi estivi tedeschi. A metà luglio, seduti al tavolo di un bar di piazza della Rotonda a Roma, pianificarono l’attentato. La frase chiave e inquietante: «Se non ci permettono di partecipare, perché non prendervi parte a modo nostro?».
La sorveglianza al villaggio degli atleti era piuttosto lasca, per scelta. La Germania voleva cancellare dall’immaginario collettivo le Olimpiadi naziste del 1936, il rigore militare teutonico, una proverbiale rigidità di modi. L’operazione simpatia era arrivata a inventare una mascotte dell’evento come il bassotto Waldi, le parole d’ordine erano improntate alla fratellanza e alla gioia. Non fu dunque difficile, poco dopo le 4 del mattino del 5 settembre, per un commando di otto persone intrufolarsi, scavalcando la rete di recinzione, e raggiungere la palazzina degli israeliani in Connollystrasse. Al primo piano trovarono la resistenza dei 132 chili dell’arbitro di lotta greco-romana Yossef Gutfreund che bloccò la porta i secondi necessari perché il suo compagno di stanza Tuvia Sokolovski riuscisse a sfondare una finestra e scappare dal retro. Due israeliani morirono subito, perché tentarono di ribellarsi, Moshe Weinberg e Yossef Romano. Altri nove furono fatti prigionieri. Alle 4,47 una donna delle pulizie che udì degli spari diede l’allarme. Un poliziotto si recò sul posto e chiese cosa stesse succedendo. Non ebbe una risposta verbale ma una più eloquente: il corpo di Weinberg venne gettato in strada. Alle 5,08 il commando fece cadere dal terrazzo un foglio con le richieste: la liberazione di 234 detenuti nelle carceri israeliane e dei terroristi tedeschi della Rote Armee Fraktion Andreas Baader e Ulrike Meinhof. Il tutto doveva essere fatto entro le 9, altrimenti sarebbe stato ucciso un ostaggio ogni ora.
Quando il mondo si svegliò ghiotto di gare sportive si trovò catapultato in un thriller. C’era già stato il colpo di scena e ora si annunciava una lunga e logorante suspense. Per una capriola della storia, i tedeschi dovevano salvare gli ebrei, mentre si muovevano dietro le quinte personaggi che legavano l’ingombrante passato con l’angosciante presente: proprio quanto nelle intenzioni si voleva evitare. Il presidente del Cio era l’ottantacinquenne Avery Brundage, sospetto di simpatie naziste e di antisemitismo, il quale da boss dello sport americano nel 1936 si era tenacemente battuto contro il boicottaggio delle Olimpiadi di Hitler e si era schierato invano contro l’esclusione per razzismo della Rhodesia (attuale Zimbabwe) dai Giochi di Monaco dove viceversa era stata ammessa la Cina di Taiwan e non la Repubblica popolare di Pechino: un contenzioso tra le due Cine che richiama l’attualità.
L’attenzione era tuttavia rapita dal terrorista con la calzamaglia sul viso che andava e veniva dal balcone. Mentre, lentamente, si cominciavano a riconoscere alcuni membri del commando che avevano scelto abbigliamenti stravaganti per essere distinguibili. Come Luttif Afif detto “Issa”, il capo negoziatore, volto annerito al lucido di scarpe, occhiali da sole e capello bianco, nato a Nazareth da madre ebrea e padre palestinese-cristiano, laureato a Berlino e che come ingegnere aveva lavorato alla costruzione del villaggio olimpico. O come Yussuf Nazzal, “Tony”, cappello da cowboy, cuoco dello stesso villaggio. Gli altri erano stati arruolati nel campo profughi di Shatila e addestrati nella Libia del colonnello Gheddafi. L’unità di crisi dei tedeschi contemplava il capo della polizia di Monaco Manfred Schreiber, il ministro federale degli Interni Hans-Dietrich Genscher (poi ministro degli Esteri e fautore dell’indipendenza di Slovenia e Croazia durante la dissoluzione della Jugoslavia) e il suo omologo bavarese Bruno Merk. Il cancelliere era Willy Brandt che contattò la premier di Israele Golda Meir la quale rifiutò, oggi diremmo senza se e senza ma, qualunque concessione ai terroristi.
Il pregiudizio positivo sull’efficienza tedesca induceva noi spettatori della maratona televisiva ante-litteram a pronosticare una felice conclusione della vicenda. Un blitz perfetto, un’irruzione con gas narcotizzanti e la convinzione si rafforzava con gli ultimatum che diventavano penultimatum, rimandati di ora in ora. Fino a quando, ed era già sera, era già buio, si arrivò a una mediazione. Terroristi e ostaggi furono trasferiti con due elicotteri alla base aerea di Furstenfeldbruck dove era in attesa un Boeing 727 per portarli al Cairo. Era stato pianificato l’attacco proprio all’aeroporto e tutto andò storto. Gli agenti posizionati attorno alla pista non avevano elmetti, giubbotti antiproiettile, visori notturni, ricetrasmittenti. I veicoli corazzati di supporto erano rimasti imbottigliati nel traffico e uno addirittura sbagliò strada. Un terzo elicottero con altri rinforzi atterrò a più di un chilometro di distanza. Nonostante questo fu dato l’ordine di aprire il fuoco. I terroristi uccisero con bombe a mano e raffiche di mitra tutti i nove ostaggi. Furono alfine sopraffatti ma in tre furono catturati vivi. All’1,30 del 6 settembre era tutto finito. Si sparse la notizia falsa che gli israeliani erano stati liberati ed erano in buona salute. La verità si fece largo solo alle 3,45 e a comunicarla fu la rete televisiva Abc.
Dopo una cerimonia funebre allo stadio olimpico Brundage annunciò tra le polemiche che lo spettacolo doveva continuare. Il fallimento del blitz che contraddiceva tutti i cliché indusse la Germania a costituire un nucleo di forze speciali di polizia per interventi antiterrorismo. Il successivo 29 ottobre un commando dirottò su Zagabria un volo Damasco-Francoforte della Lufthansa. Chiese la liberazione dei tre terroristi di Monaco in cambio dei passeggeri. Il governo di Bonn acconsentì probabilmente per cautelarsi da nuovi attentati sul proprio suolo. I tre furono condotti in Libia dove furono accolti con tutti gli onori. Il governo di Israele varò l’operazione “Ira di Dio” per eliminare tutte le persone coinvolte a vario titolo nel massacro di Monaco. Spielberg ne ha ricavato un film di grande successo, “Munich”. Cinquant’anni dopo il conflitto israelo-palestinese continua. L’antisemitismo è sempre più presente in Europa. Dove sono anche risorti diversi gruppi filo e neo-nazisti. L’innocenza perduta esattamente 50 anni fa ha aperto gli occhi alla mia generazione. Ci ha costretto ad abbandonare le figurine degli eroi e a prendere atto che sì, il mondo è cattivo. Un filo rosso che parte dalla Baviera, fa il giro del pianeta e finisce poco distante, in Ucraina.