Arresti e sequestri record non riescono a fermare lo tsunami di una droga che era per ricchi e ora unisce le classi sociali. Magistratura e forze di polizia lanciano l’allarme. Ma la polvere bianca dà lavoro. E la lotta al riciclaggio si fa per onor di firma

Chi glielo spiega al sottoccupato meridionale senza reddito di cittadinanza incappato in un posto di blocco con i pacchi di cocaina nel portabagagli che lui deve farsi vent’anni di galera mentre i protagonisti della politica, della moda, della pubblicità, ma anche ormai autisti di autobus, lavoratori sotto stress, ragazzetti con 50 euro in tasca, insomma gli utilizzatori finali del suo servizio possono dire ai cronisti scandalisti di farsi gli affari loro? Come dire, a lui e a chi lo arresta, che oltre il dibattito colto tra proibizionisti e abolizionisti c’è una terza via, quella del reale, dove la cocaina è già stata di fatto legalizzata?

Prima di gridare all’iperbole, bisogna ascoltare le parole di Francesco Lo Voi. Il 12 luglio scorso il procuratore della Repubblica di Roma in udienza alla commissione parlamentare antimafia, nominata dal governo Meloni senza troppa fretta dopo otto mesi, si è espresso così sulla situazione del narcotraffico nella capitale: «Se non è totalmente fuori controllo, poco ci manca, nonostante l’impegno, le indagini e gli arresti. Lo scenario è veramente preoccupante per la semplice ragione che ad alimentare un’offerta abnorme c’è una domanda abnorme».

Se Roma sniffa, la Madonnina ha sostituito la nebbia con la polvere bianca. «Milano si conferma la capitale della droga. La richiesta è altissima», hanno dichiarato i magistrati del pool guidato dal procuratore Marcello Viola a commento dell’operazione “Money delivery”, chiusa in primavera con un bottino di 645 chilogrammi di cocaina sequestrato alle filiali lombarde dei clan di Africo. I volumi di traffico erano di tre quintali al mese, depositati in un capannone di Gerenzano (Varese) giusto il tempo di una distribuzione a tamburo battente, spinta da una richiesta forsennata e di fatto incontrollabile.

Nord e Sud uniti nella coca mostrano un’integrazione finalmente efficace. Il Mezzogiorno, per lo più, fornisce. Il Settentrione, per lo più, consuma e reinveste il denaro del narcotraffico nelle piazze ricche, perché anche la guerra al riciclaggio ormai si combatte per onor di firma.

Lo stato delle cose è descritto nell’ultimo rapporto della Dcsa (direzione centrale per i servizi antidroga), pubblicato il 15 giugno 2023 a firma del generale della Guardia di finanza Antonino Maggiore, sostituito a fine luglio da Pierangelo Iannotti dei carabinieri.

Nella prefazione al rapporto di 506 pagine le cifre parlano. Nel 2022 i sequestri di cocaina hanno ritoccato il record italiano del 2021 da 21,39 a 26,1 tonnellate. Gli effetti della pandemia sulla popolarità della coca sono stati irrilevanti. Caso mai, hanno incentivato i consumi. Nel 2018 i sequestri, che sono una quota minima del flusso effettivo, erano a quota 3,63 tonnellate. Un’inezia rispetto a quanto si è già visto nei primi sette mesi di un 2023 che corre verso il nuovo primato nazionale. Fino a pochi anni fa, i sequestri più importanti viaggiavano per quintali. Ora sotto la tonnellata è robetta. I due colpi di aprile e di luglio nelle acque di Catania e davanti a Termini Imerese hanno totalizzato insieme 7,3 tonnellate per un valore di mercato di 1,2 miliardi di euro.

Il sequestro di due tonnellate al largo della costa orientale dell’Isola ha illustrato le nuove possibilità offerte dalla tecnologia ai trafficanti. Il carico è stato depositato dalla nave madre in mare aperto dentro involucri impermeabilizzati tenuti insieme da una rete e da galleggianti. Grazie al sistema gps è possibile anche affondare i pacchi, come si è appreso dall’inchiesta “Nuova narcos europea” della direzione investigativa antimafia di Reggio Calabria contro la cosca Molé, che si serviva di sommozzatori professionisti reclutati a gettone nella Marina militare peruviana, oltre che di chimici colombiani e boliviani con spese di viaggio pagate, per recuperare i carichi sommersi di fronte ai porti di Gioia Tauro e di Livorno.

Il sequestro di fine luglio, oltre a stabilire il nuovo record italiano a quota 5,3 tonnellate, ha messo in mostra il collaudato sistema della spezzatura di carico dalla Plutus, salpata da Santo Domingo, a un peschereccio partito dalla costa calabrese. Fra i venti arrestati figuravano italiani, azeri, turchi, albanesi, tunisini, francesi e ucraini. In pratica, la rosa di una squadra di serie A.

Ed è ancora nulla rispetto alle 23 tonnellate bloccate tra Belgio e Italia nell’operazione Eureka andata a segno lo scorso maggio su intervento della Dda di Reggio Calabria. Il controvalore della merce è stato stimato in 2,5 miliardi di euro. Sommati agli 850 milioni di Termini Imerese e ai 400 di Catania si viaggia non lontano dai 4 miliardi, che equivalgono a metà della spesa del reddito di cittadinanza nel 2022 secondo le stime dell’Inps.

La coca dà lavoro. A tutti. Lavora il sottoproletario mafioso che rischia vent’anni e lavora il centralinista che prende gli ordini al telefono e spedisce un grammo o dieci a domicilio come manderebbe una capricciosa doppia mozzarella. A Ponte Milvio, quartiere della movida di Roma nord, le dosi si ordinavano attraverso la app Session, con i pusher nascosti dietro account falsi e indirizzi ip stranieri (marzo 2023). Idem a Verona, dove la merce ordinata arrivava con i rider (luglio 2023). A Trento è in uso il recapito in tabaccheria del centro, con una riedizione del vecchio fermo posta (ottobre 2022). Il giornale online RomaToday ha spiegato come in cinque clic si possa passare da Instagram all’immancabile Telegram attraverso un “dissing”, un litigio sulla pagina di un influencer. Fino a poco tempo fa, lo spaccio era confinato al dark web. Oggi basta una app di messaggistica istantanea, sul genere di Wickr Me che la controllante Amazon chiuderà alla fine del 2023.

Al centro di questo mondo virtuale dove i dettaglianti mostrano fantasia e iniziativa, il ruolo della ‘ndrangheta rimane preminente. Ma i criminali calabresi sanno giocare bene sullo scacchiere delle alleanze. «Per quanto riguarda Cosa Nostra», sostiene la Dcsa, «le indagini rivelano una sua persistente vitalità, un reiterato interesse al traffico di stupefacenti, una notevole capacità di adattamento ai mutamenti di contesto ed un approccio pragmatico al redditizio “business” del traffico di droga, che genera enormi profitti, a fronte di minori rischi, rispetto ad altri reati tipicamente mafiosi, quali ad esempio le estorsioni». In ottima forma grazie alla coca sono anche la camorra e le mafie pugliesi.

Il controllo del territorio consente una relativa tranquillità nella gestione del traffico. I sequestri sono parte del rischio di impresa e le condanne colpiscono i personaggi apicali difficilmente o in ritardo. Roberto “Bebè” Pannunzi, romano, 75 anni vissuti nella cocaina da quando partì per il Canada dominato dal Siderno group di don Antonio Macrì, è stato spedito in Italia solo dieci anni fa dal Sudamerica dove era diventato il re dei mediatori. Un anno fa, Pannunzi ha ottenuto la revoca del 41 bis, il regime di carcere duro riservato ai grandi boss mafiosi. Gli rimangono diciotto anni da scontare. Forse anche lui era diventato obsoleto, dunque sacrificabile, rispetto al nuovo mondo della coca 2.0 dove, tuttavia, un attracco sul mare serve sempre.

«In questa ricostruzione dello scenario operativo», sottolinea il rapporto della Dcsa, «riveste un ruolo di assoluta centralità il porto di Gioia Tauro, nel quale si concentra l’80,35% dei sequestri di cocaina effettuati alla frontiera marittima, con un’incidenza del 61,73% sul totale nazionale».

In Calabria, ormai, si scherza sull’argomento con i post online dello Statale Jonico: «clamoroso a Gioia Tauro, trovate banane dentro un container di coca».

La satira e il folklore possono essere veri quanto la cronaca. Ci sono i giochi d’artificio sparati in certi quartieri delle grandi città per segnalare un carico andato a buon fine. Ci sono i rilevamenti chimici che hanno tracciato la coca in metà delle banconote sequestrate in Francia, soprattutto i tagli piccoli da dieci e venti euro, e addirittura nell’80 per cento dei dollari in circolazione a New York. Torna alla mente una frase di Pablo Escobar Gaviria. Il capo del leggendario cartello di Medellín, celebrato da film e serie tv, aveva già individuato la radice geografica delle sue fortune quando diceva: «Non c’è società in Colombia che prende più soldi di me dagli Stati Uniti». E ai suoi tempi la coca era ancora la droga dei ricchi.

 

Il ridere per non piangere è una coperta sottile sul cuore del problema: i consumi. Ai primi di agosto il progetto “Acque reflue” dell’istituto farmacologico Mario Negri ha pubblicato le sue conclusioni sul biennio 2020-2022. L’analisi dei residui metabolici delle sostanze stupefacenti nelle acque arrivate ai depuratori di 33 centri urbani nelle venti regioni italiane mostrano che la cannabis rimane al primo posto, con 51 dosi al giorno ogni mille abitanti. La cocaina segue in classifica con oltre 20 dosi al giorno per mille abitanti a Pescara, Montichiari, Venezia, Fidenza, Roma, Bologna, Merano. I consumi più bassi, compresi tra una e quattro dosi al giorno, si rilevano a Belluno e Palermo. Non solo grandi città, dunque. Anche la provincia si adegua alla moda. Con quali numeri è difficile dire.

Il bollettino statistico europeo pubblicato a fine giugno dall’Emcdda (european monitoring centre for drugs and drug addiction) mette la cocaina al primo posto fra le sostanze stimolanti, mentre a livello quantitativo la cannabis è sempre prima in classifica. Nei 27 paesi presi in esame i consumatori sarebbero 23,7 milioni pari all’1,3 per cento della popolazione. Ma sono dati che ruotano intorno all’uso patologico, che è il maggiore responsabile dei ricoveri in pronto soccorso per avvelenamento (27 per cento del totale).

L’ultimo rapporto sulle tossicodipendenze pubblicato sul sito del ministero della Salute a fine ottobre 2022 analizza a livello nazionale dei dati rilevati attraverso il Sistema informativo nazionale per le dipendenze (Sind). Dal rapporto è difficile rilevare o anche solo stimare quelli che l’Osservatorio europeo droghe e tossicodipendenze, agenzia dell’Ue con sede a Lisbona, definisce i consumatori sperimentali.

Nel mondo degli sperimentatori la cocaina è dovunque. Era nelle feste milanesi con stupro dell’imprenditore Alberto Genovese, che ha invocato la sua dipendenza come attenuante. Era negli incontri privati di Luca Morisi, il tattico della Bestia, la macchina propagandistica della Lega, che è stato archiviato su richiesta della pubblica accusa «per particolare tenuità dei fatti». Era in menu presso lo chef palermitano Mario Di Ferro dal quale si riforniva il berlusconiano Gianfranco Micciché, più volte parlamentare nazionale e oggi deputato regionale siciliano, ascoltato come semplice persona informata dei fatti. Nessun problema da parte di Miccichè ad ammettere l’uso, senza l’ipocrisia di molti colleghi e senza la tigna dell’autista dell’Atac che tre anni fa è stata trovata positiva a un controllo antidroga e negativa al secondo. La donna ha fatto causa all’azienda municipalizzata romana e ha ottenuto un risarcimento di 20 mila euro. Nel frattempo, però, i controlli antidoping a campione dell’Atac hanno portato diciassette licenziamenti.

Colpire i clienti del narcotraffico con multe e ammende, perché pensare al carcere è una follia, presuppone un impegno da parte dello Stato che è incompatibile con queste masse di consumatori e con gli standard italiani in generale. Quindi si lascia fare.

Chi sostiene la liberalizzazione delle droghe trova un buon argomento nell’impossibilità di contrastare un uso così ampio. Ma legalizzare per stroncare il principale canale di accumulazione finanziaria del crimine organizzato presuppone che i clan accettino più o meno di buon grado la statalizzazione dei loro traffici. Questo non è successo con i tabacchi lavorati esteri (tle), che sono ancora fonte di arricchimento per le mafie dedite al contrabbando. Men che meno accadrebbe con la cocaina. Inoltre bisognerebbe organizzare norme, limiti, verifiche, reti di distribuzione e trovare referenti per l’acquisto fra i padroni del traffico. Ciò significa trattare a viso aperto con criminali efferati che non hanno nemmeno la scusa, concessa ad alcuni capi di Stato attualmente in carica, di essere eletti dalla volontà popolare.

Soprattutto la liberalizzazione di una droga cosiddetta pesante creerebbe un problema con l’idea di Stato etico che aleggia dai tempi di Hobbes e di Hegel. La prima vittima casuale di un cocainomane vedrebbe le istituzioni sul banco degli imputati. Non sono cose che uno Stato sedicente etico è disposto a fare, quanto meno non alla luce del giorno.

La fascia di insicurezza intanto si allarga. Basta pensare ai casi avvenuti in due delle maggiori località turistiche della Campania. Il primo a Capri nel luglio di due anni fa, quando un bus è precipitato nel vuoto. Il conducente rimasto ucciso, Emanuele Melillo, 32 anni, aveva un’invalidità del 50 per cento e faceva uso di cocaina. Da bigliettaio era stato spostato alle mansioni di autista. Oggi sono sotto processo tre persone fra le quali il medico che avrebbe dovuto sorvegliare le condizioni di Melillo.

Il secondo episodio risale a pochi giorni fa quando nel mare di fronte ad Amalfi uno skipper trentenne è stato coinvolto nella collisione che ha ucciso l’editrice di Bloomsbury Usa Adrienne Vaughan. Il giovane è risultato positivo al test della cocaina.

Si è solo sfiorata la tragedia lo scorso giugno a Ciampino quando il conducente di un pullman in partenza per una gita scolastica di bambini è stato controllato dalla polizia locale e trovato positivo ad alcol e droga.

Insicurezza dovrebbe significare consenso elettorale in discesa. Ma la cocaina non è vista come un tema politico, anche perché in parlamento chi è senza peccato scagli la prima pietra. Allora avanti così, con la coca legalizzata. Basta che non si sappia in giro.