Il report
MeeToo, gli abusi sulle attrici: «Troppe le stanze di Barbablù. Ma adesso le chiavi le abbiamo noi»
Stigmatizzare e debellare la violenza sulle donne è prima di tutto una questione culturale, che nello spettacolo ha origine e possibili soluzioni. Lo racconta il film sull’inchiesta Weinstein “She Said” ma anche il nuovo rapporto di Amleta e Differenza Donna
Nei teatri, sui set e nelle accademie sono troppe «le stanze chiuse a chiave». Le violenze denunciate dall’associazione Amleta riportano il #MeToo nello spettacolo italiano. A teatro anche i silenzi sono battute. E ci sono silenzi che «ci convocano come nazione, senza eroismi», afferma Cinzia Spanò, attrice e presidente dell’Associazione Amleta contro la disparità e la violenza di genere. Insieme a Differenza Donna lunedì 16 gennaio Amleta ha diffuso i primi dati del suo report biennale: 223 segnalazioni di abusi e violenze, subiti per la quasi totalità da donne, da parte di registi, colleghi attori, produttori, insegnanti. Abusi e testimonianze strazianti, raccontati da alcune delle 22 attrici che compongono l’associazione, descrivono un sistema seriale e capillare di violenze, dal grande teatro al più piccolo dei casting director. Non esiste distinzione e, soprattutto, non si fanno nomi, sia per tutelare le donne che hanno già avviato procedimenti penali, sia perché Amleta e Differenza Donna chiedono di inquadrare il fenomeno per quello che è: una rete di violenza sistemica, in cui il sesso è considerato strumento di sottomissione.
«Noi rifiutiamo il diritto sessuale maschile come forma di potere sulle donne», afferma la rappresentante legale di Differenza Donna, l’avvocata Teresa Manente. Al tempo stesso, «chiediamo l’istituzione del reato di molestia sessuale specifico», per alimentare un cambiamento nella cultura, far passare il messaggio per cui a ogni tipo di abuso deve corrispondere uno stigma sociale, un isolamento dell’abusante, non della vittima.
Quando cinque anni fa il movimento #MeToo sfiorò l’Italia, furono le attrici, soprattutto chi si espose con nomi e cognomi, a subirne le maggiori conseguenze. Avvenne, e avviene tutt’oggi, a causa della cultura dello stupro e della violenza. «Cultura e violenza non posso però stare nella stessa frase», continua la presidente Spanò. È necessario intervenire al livello educativo, creare degli «anticorpi». A L’Espresso dichiara che «deve esserci un’assunzione di responsabilità collettiva, tutti noi dobbiamo preoccuparci di creare quegli anticorpi che permettono di arginare un problema che non si risolverà solamente con i codici e con i protocolli. Occorre capire anzitutto qual è il vero volto della violenza, cosa si nasconde dietro numeri che abbiamo dato e ricordarsi che ci sono sempre delle persone che vedono la loro vita fermata o devastata da queste figure predatorie».
Figure che si trovano ai “varchi” e decidono chi prosegue e chi no, spesso traumatizzando giovani professioniste che abbandonano la carriera. Elementi ben inseriti nelle accademie, impuniti da venti, trent’anni, nonostante tutti sappiano, come si apprende dalle testimonianze dirette. «Nei nostri bei palazzi, teatri, set, accademie, ci sono stanze ben chiuse a chiave», come quelle di Barbablù, afferma sempre Spanò, «solo che noi adesso abbiamo le chiavi. E vogliamo restare vive, umanamente e professionalmente». La retorica dell’attrice “libera”, “disinibita” e “perversa” che perseguita le giovanissime fin dalla loro formazione è solo uno dei modi in cui attraverso le parole e gli stereotipi si è continuato nel tempo a perpetrare la violenza anche a livello culturale. Ribellarsi significa anche cercare di trovare nuovi modi di riscrivere la propria storia, con nuove parole e nuove immagini. In questo, pur essendo il luogo principale delle violenze in questione, il mondo dello spettacolo può diventare un’arma a proprio favore, può «creare opinioni e fare da megafono», afferma a L’Espresso Fabia Bettini, co-direttrice del festival Alice nella Città.
È il caso del film “She Said” di Maria Schrader, il racconto dell’inchiesta del New York Times sugli abusi del produttore Harvey Weinstein. Arriva nelle sale italiane il 19 gennaio, in ritardo di qualche mese rispetto all’uscita statunitense per il quinto anniversario della nascita del #MeToo, ma in perfetto tempismo con la rinascita del movimento italiano. Nella ricostruzione dettagliata del lavoro delle due giornaliste, Jodi Kantor e Megan Twohey, emerge un racconto interamente al femminile che innanzitutto definisce un suo codice di rappresentazione della violenza e dell’abuso, senza indugiare e senza infierire, ma riuscendo a restituire la sensazione percettibile della paura, della frustrazione, del disagio e dell’impotenza di alcune donne di fronte a sistemi tali di potere e assoggettamento, come le grandi produzioni statunitensi.
Attrici note prestano la loro vera identità, ripercorrendo le vicende contro Weinstein, ma sono le storie rimaste fino a oggi invisibili, quelle delle assistenti dietro le quinte, le storie più potenti, quelle che rappresentano al meglio il senso del film di Schrader e dei movimenti #MeToo: l’unico modo per fare davvero un salto avanti è farlo tutte insieme, nessuna rimane indietro sola.