Grandi eventi
Lo strano caso della "pipì olimpica" che rischia di farci fare un'altra figuraccia internazionale
Per le Olimpiadi invernali serve un laboratorio antidoping accreditato. Ma l'Italia non ne ha uno: e su quello che potrebbe essere allestito per l'evento nessuno vuole metterci i soldi necessari. Così diventa concreto il rischio di dover spedire le provette di urine a Parigi. E dopo il guaio della pista da bob, sarebbe una nuova pessima uscita
Immaginate la scena: 150 provette almeno di urina sigillata e congelata che in tre o quattro contenitori speciali prendono ogni giorno l’aereo da Milano per atterrare a Parigi, essere scaricate in un laboratorio modernissimo nella banlieu e finalmente analizzate per controllare se qualche atleta dello sci, del fondo o del biathlon ha fatto il furbo e barato al gioco delle medaglie. Potrebbe succedere con le prossime Olimpiadi di Milano-Cortina che si inaugureranno il 6 febbraio 2026. Sembrano lontani i XXV Giochi invernali, ma in realtà per tutto quello che c’è ancora da fare sono praticamente domani.
Ricordate la storia del grande inghippo della pista di bob che va da Cortina, passa da Innsbruck in Austria, poi Sankt Moritz in Svizzera, ritorna a Cesana in Piemonte lì dove furono le Olimpiadi di Torino 2006 e infilarsi ormai non si sa dove e come, tanto da finire Malagò sul comico bob di Fiorello? Ebbene siamo allo stesso identico paradosso col laboratorio antidoping necessario per assistere e assicurare la regolarità di un evento planetario del genere. O entro il 30 novembre si manda una precisa risposta a Wada e Cio, oppure davvero il rischio dello scatolone di provette di pipì che devono essere spedite a Parigi per le analisi diventa concreto, reale. E soprattutto fa fare un’altra pessima figura al governo italiano e a chi ha voluto organizzare le Olimpiadi senza avere (ancora) tutte le carte in regola. Sembra una barzelletta, ma sulla pipì olimpica ci si gioca un pezzo di credibilità di questo paese.
Per carità un laboratorio ce l’abbiamo, quello dell’Acqua Acetosa a Roma, ma ormai non è più adeguato ai tempi. Tanto è vero che la Wada, il grande ente internazionale (World Antidoping Agency) ci ha espressamente intimato: no signori, questa roba qui non va bene, di laboratorio ne serve un altro, più grande e adeguato, insomma come si deve e a norma. E soprattutto non può stare lì dove sta, il laboratorio deve essere indipendente e lontano soprattutto dalle strutture dello sport stesso. E l’Acqua Acetosa a Roma questo è, un enorme grande centro dove Coni, Sport e Salute, istituti di medicina e della scienza vari dipendenti direttamente da chi governa lo sport italiano, società tra le più svariate e atleti, dirigenti e tecnici di tutti le discipline conosciute bazzicano, si allenano e lavorano a tutte le ore del giorno. Insomma un via vai che non va proprio bene con la sicurezza e le rigide procedure dell’antidoping volute dalla Wada. Sarebbe come entrare e uscire da un commissariato indisturbati senza neanche un agente che all’ingresso ti faccia almeno: “Dicaaa?”.
Per i grandi eventi sportivi internazionali, non solo le Olimpiadi, serve un laboratorio antidoping accreditato dalla Wada e l’accredito che abbiamo per questo livello di eventi è ormai scaduto o in via di scadenza. Anche per gli Europei di calcio del 2032 o Mondiali di discipline varie servirebbe un “upgrade” e dunque un laboratorio diverso, ben più grande e “indipendente”. La struttura è già stata individuata, fa parte del patrimonio pubblico, e sorge sempre a Roma in zona Casilina, vicino al Raccordo Anulare. Sarebbe perfetta, a quanto pare, se non fosse per il solito basilare problema: chi paga? A spanne fanno una quindicina di milioni di partenza, più l’affitto, più altri 500.000 euro almeno di avviamento per i primi tre anni.
Nel più classico degli inghippi all’italiana nell’operazione sono coinvolti infiniti protagonisti: il Coni come primo referente dello sport italiano, la Federmedici che è la diretta responsabile del laboratorio e che fornisce medici e strutture all’antidoping, la Nado Italia che si occupa della adozione e applicazione delle norme sportive antidoping e delle disposizioni del codice Wada, la Wada stessa, il Cio. E poi ancora il Ministero dello Sport, il Ministero della Salute, il Ministero dell’Economia. Detto che la Federmedici non ha fondi per un’operazione così pesante, pare appurato che, almeno per quanto riguarda il lato Olimpiadi, debba pagare lo Stato, tramite la Simico e cioè la società tutta pubblica che si occupa delle infrastrutture dei Giochi, o magari altri canali, ma intanto non s’alza una lira. Il presidente del Coni Malagò da una parte afferma che “non sono pentito di aver portato le Olimpiadi invernali in Italia” e dall’altra sostiene di aver fatto infinite lettere a tutti per sollecitare la risoluzione del problema che non dipende da lui e di cui non è responsabile. Come per la pista di bob, appunto. E adesso addirittura - probabilmente perché pressato e stressato da tutti - mette quasi l’out out: «Non so che altro fare, mando solleciti da 4 anni. Ora siamo fuori tempo massimo, entro il 30 novembre dobbiamo decidere».
Ovviamente lo scippo del laboratorio antidoping a favore della Francia sarebbe per il governo populista e sovranista di Meloni e Salvini un altro grande schiaffo all’orgoglio patrio. Il grande e angosciante problema dello sport italiano, più che nel futuro si direbbe nella prossima settimana al massimo, è decidere cosa fare di qualche decina di litri di pipì olimpica Roma o morte? Parigi o la Casilina?