Televisione

Sulla violenza sulle donne anche la Rai ha bisogno di cambiare passo

di Beatrice Dondi   24 novembre 2023

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Nunzia De Girolamo

Pornografia del dolore, retorica, vittimismo. E i giochi di potere (e di conduzione) sono tutti al maschile. Ecco come il racconto del servizio pubblico fa acqua da tutte le parti

Una settimana. Dura una settimana l’attenzione che la televisione pubblica dedica al massacro quotidiano delle donne, giusto per comprendere la fatidica data del 25 novembre in cui si celebra il cordoglio generale per dire basta alla violenza. Un palinsesto fitto fitto, spot, panchine rosse, sempre con le stesse modalità. Poi basta, fino all’otto marzo. Anche quello piace abbastanza, ma un po’ meno perché la lotta non è una parola che si addice a tutti. Quest’anno la settimana deputata al dolore, ha tragicamente coinciso col femminicidio di Giulia Cecchettin, e davanti al gigantesco urlo collettivo il servizio pubblico si è mobilitato doppiamente. 

 

Il 19 novembre, il giorno dopo il ritrovamento, è comparso un piccolo logo sullo schermo in alto a destra per qualche ora (“La Rai dice basta alla violenza sulle donne”), mentre negli studi di tutti i programmi ci si affannava a trovare gli ospiti più adatti per tenere alta l’attenzione. Tipo la senatrice leghista Simonetta Matone che a “Domenica in” incolpa le madri che subiscono senza ribellarsi, perché alla fine, mannaggia, sono sempre le donne che sbagliano. Un pensiero per Giulia Cecchettin è arrivato persino prima della finalissima di Sinner: «È nostro compito lanciare messaggi sull’educazione sentimentale e lo sport è importante perché insegna ad accettare le sconfitte», facendo così dimenticare quando il telecronista Rai dopo il gol di Portanova, accusato di stupro gridava: «E questa rete mette a tacere le polemiche». E poi il Tg1, che mostrava in apertura un fotomontaggio con tutti i volti delle donne ammazzate da uomini nel 2023, perché sì, «è giunto il momento di fare una seria riflessione». Che fino a ora, oltre cento vittime in undici mesi, si è scherzato. 

 

Perché il racconto della sopraffazione, al di là dei lupi, non solo ha una scadenza come il latte, ma spesso è sconnesso e zoppicante. Ma facciamo qualche esempio. Dopo l’orrore, anche quello collettivo, dello stupro di Caivano, il programma “Filorosso” su Rai Tre intervista una scrittrice, Valentina Mira autrice di un libro (“X”) con cui affronta il tema della violenza partendo da quella che è stata la sua esperienza personale. Ma nel collegamento sparisce il cognome e “Valentina”, una professionista assodata, diventa «una ragazza molto timida» per cui provare lacrimevole compassione. E il libro non viene citato, quel che si cerca è la storia, il dolore, il dettaglio, come perfetto esempio di cattiva tv. Ma imparare dagli errori è cosa rara. 

 

Così solo pochi mesi dopo, Nunzia De Girolamo ospita una giovane donna violentata da sette uomini a Palermo e per amor di share la tiene lì, a leggere gli insulti su Internet, parole pesantissime da diffamatori rigorosamente col nome oscurato. Ma non c’è problema, giusto un filo di pornografia, quel «cosa senti, cosa provi, quanto soffri», un malcostume che vede nel racconto dettagliato della violenza una via d’uscita dalla violenza stessa. Di uomini invece non si parla, meglio dargli voce. 

 

Anche in questi giorni nei talk gli ospiti maschili sono più dei due terzi e fa sorridere se si pensa che la Rai ha introdotto la campagna “No Women No Panel” per promuovere una partecipazione bilanciata e plurale. E nell’azienda in cui i direttori sono tutti maschi la grande partita degli ascolti la giocano i conduttori. Pino Insegno contro Flavio Insinna, contro Marco Liorni, contro Amadeus e così via. Nessuna donna all’orizzonte, pochissime le prime serate affidate alle conduttrici a cui si riserva il mezzogiorno e dintorni, tra fornelli e confidenze. 

 

In questa televisione con la cravatta, che due anni fa riuscì a inserire nelle fiction un falso stupro per ben tre volte in un mese, da una parte c’è l’ottima fiction “Circeo”, nessuna indulgenza pornografica, un racconto perlopiù asciutto del massacro del 1975, in cui venne ammazzata Rosaria Lopez e Donatella Colasanti riuscì a sopravvivere fingendosi morta. Quel processo straordinario segnò un punto di non ritorno per il Paese, in un’onda di sostegno che riempì le piazze con una forza tale da riuscire a stravolgere il reato di stupro: non più contro la morale ma contro la persona. Tutto bello e ben fatto, a partire dall’ottima Pia Lanciotti nei panni dell’avvocata Tina Lagostena Bassi. 

 

Invece lo sconvolgente documentario “Processo per stupro” del 1979, su Rai Play non c’è più. L’educazione di cui tanto si parla potrebbe beneficiare dell’arringa degli avvocati di uno stupratore: «Signori miei, una violenza carnale con fellatio può essere interrotta con un morsetto», diceva. Oppure: «Perché avete voluto mettere i pantaloni? Ognuno purtroppo raccoglie i frutti che ha seminato. Se questa ragazza fosse stata a casa, se l’avessero tenuta presso il caminetto, non si sarebbe verificato niente». Ecco, il documentario si trova su YouTube e persino al Moma di New York. Ma non su Ray Play, che conserva solo i nove minuti di Lagostena Bassi in difesa della vittima. Perché, come si diceva, il problema non è degli uomini e questo la Rai evidentemente lo ha introiettato bene.

 

 

A cambiare il vento serviva proprio una donna, giovane e meravigliosa, una piccola ragazza piegata dal dolore che davanti alle telecamere diventa una gigante. Elena Cecchettin, sorella di Giulia, passa da un canale all’altro senza tema per chiedere una rivoluzione culturale contro il patriarcato, per poter provare a ricominciare. E tra gli studi intrisi di retorica e vano buonismo, si staglia la sua voce: «Nel momento in cui nasciamo dobbiamo stare in guardia ma non è giusto. Vorrei che i ragazzi non ci obbligassero a stare attente. Vorrei che ci aiutassero a richiamare i loro amici maschi. Che facessero autoanalisi, per imparare per il futuro. Manca il rispetto. E noi abbiamo diritto al rispetto, anche se siamo donne». E se non ora, quando.