Dialoghi dell'Espresso

Gianmarco Tamberi: «Quando salto sono un'altra persona. Ma spesso mi sono chiesto se il gioco valesse la candela»

di Chiara Sgreccia   9 novembre 2023

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Gianmarco Tamberi

Le medaglie, l’amicizia con il rivale, le scaramanzie, la compagna, il recupero difficile dopo l’infortunio, i sacrifici per raggiungere la vetta. Gimbo, il saltatore più forte del mondo, si racconta a L'Espresso

Oro olimpico, oro europeo, oro mondiale. Marchigiano, 31 enne, è senza dubbio il miglior saltatore in alto al momento in circolazione. «Ha vinto tutto, t-u-t-t-o», hanno gridato i cronisti, titolato i giornali, urlato il pubblico euforico dagli spalti, lo scorso 22 agosto quando, a Budapest, Gianmarco Tamberi è diventato anche campione del mondo.

 

«Adesso, Gimbo», sembra dirsi pochi secondi prima del salto di 2,36 metri con cui ha battuto lo statunitense JuVaughn Harrison, medaglia d’argento, e il qatarino Mutaz Essa Barshim, l’atleta con cui a agosto 2021 Tamberi ha diviso l’oro olimpico di Tokyo 2020.

 

«È un amico che stimo sia dal punto di vista umano, sia professionale. Per me è il saltatore più forte di tutti i tempi. Quando mi trovo in pedana a gareggiare contro di lui è una sfida immensa, immaginati che sensazione pazzesca ho provato quando ho vinto: una felicità totale che si è impossessata di me». Che, come un’onda energetica, ha coinvolto, travolto tutto quello che ha incontrato. Non solo al Centro nazionale di atletica leggera ungherese ma per centinaia di chilometri, grazie ai social e alle tv.

 

«Prima di ogni gara importante penso sempre al finale migliore. Ma niente di quello che immagino è paragonabile a quanto provo nella realtà. E niente sarà mai forte come la gioia che ho sentito a Tokyo. È stata la mia sfida più grande e l’ho superata. Un evento che mi ha cambiato completamente come atleta e come persona».

 

Per Gimbo le Olimpiadi del 2020 erano diventate un'ossessione. Con l’infortunio alla caviglia sinistra che gli ha impedito di partecipare ai giochi di Rio del 2016, a un mese dall’apertura, «sono iniziati cinque anni difficilissimi. Ho dovuto stringere tanto i denti e passare su mostri enormi per uscire da un periodo nero. Chi mi conosce davvero sa quanto è stato difficile: una cicatrice che mi farà male per sempre. Ma che mi ha dato anche la forza di fare qualcosa di impossibile, vincerle nel 2021. A un certo punto ero rimasto il solo a crederci», racconta senza indugiare troppo nei ricordi. Con un tono, però, molto più fermo di quello leggero e arguto del resto della chiacchierata. «Anche se è stato un periodo in cui ho ricevuto tantissimo affetto. Molte persone si sono immedesimate in me che ho visto sparire all’improvviso il mio sogno a pochi passi dal raggiungerlo. E mi hanno sostenuto».

 

Più di tutte Chiara Bontempi, la moglie, con cui condivide la vita da 14 anni. Che ha imparato a capirlo tanto da «trasformare i miei obiettivi nei nostri». A conoscere «anche la persona completamente diversa che divento prima di una gara importante. Dormo tantissimo, ho bisogno di riposare perché uso il sistema nervoso al cento per cento negli allenamenti. Mi sveglio con calma, ovviamente sono a dieta, mangio quello che mi viene consentito, cioè pochissimo. E infatti arrivo a essere molto magro. Con poca energia da dedicare alle attività al di fuori del salto in alto. Durante l’ultimo allenamento, nell’aria si sente la tensione altissima. Questo secondo me è un limite, perché il vero banco di prova dovrebbe essere la gara. Invece, più si avvicina il giorno x e più cerco conferme in campo durante gli allenamenti, testo le mie capacità. Faccio molto spesso yoga, meditazione, sto con me stesso. Passo poco tempo con gli altri. È un po’ come se il mio carattere cambiasse pian piano fino ad arrivare alla gara che sono un’altra persona. Mi sento più forte, pieno di adrenalina, ricco di una potenza enorme, quasi incontrollabile, che devo mettere in campo. Sono molto diverso dai giorni normali e per questo preferisco stare solo. Anche a Budapest, solo dopo la vittoria ho visto gli amici che sono venuti a fare il tifo per me».

 

Presenze fondamentali della vita di Tamberi (e viceversa). A cui l’atleta delle Fiamme Oro vorrebbe aver modo di dedicare molto più tempo. «Siamo persone privilegiate in quanto atleti perché facciamo un lavoro che ci piace. Che ci chiede tantissimo ma che ci dà anche tantissimo. Non è sempre facile tenere duro, però. Perché i sacrifici sono molti, le occasioni importanti perse, come compleanni, cene e feste con famiglia e amici anche. Ti dispiace, ma c’è la consapevolezza che sono proprio queste scelte a segnare il cammino verso la meta. Se vuoi provare a essere il numero uno, devi puntare dritto all’obiettivo. Più volte mi sono chiesto se il gioco valesse la candela. Non ho una risposta perché avrei dovuto vivere una vita parallela per sapere come sarebbe stato altrimenti. Ma non posso lamentarmi della mia, delle splendide amicizie che ho, del rapporto con Chiara».

 

A oggi Gimbo si dice fortunato e soddisfatto. Non gli piace guardarsi indietro perché le sfide che vuole sostenere sono ancora tante, gli obiettivi da raggiungere, le gare da affrontare. Come le Olimpiadi di Parigi del prossimo anno. A tutti quelli che chiedono a quando un figlio risponde:  «Presto. Ma non è ancora arrivato il momento. Vorrei vincere la seconda medaglia d’oro nel salto in alto maschile, cosa che non ha mai fatto nessuno prima. Se io o Barshim vincessimo saremmo i primi al mondo. Non sono a fine carriera, non mi piace guardarmi indietro anche perché la mia paura più grande è sedermi. Perché quando lotti così tanto per raggiungere un obiettivo a cui tieni e poi ci arrivi, come è successo a Tokyo, hai meno fame, meno voglia di arrivare. Così trovo l’energia nelle sfide diverse».

 

A Tamberi non piace crogiolarsi nei ricordi. Ma neppure guardare troppo in là, avanti nel futuro: «Sono concentrato su quello che sto facendo adesso. Vedremo quanto sarà, le occasioni che si presenteranno. Crescendo si cambia e quello che, ad esempio, dieci anni fa pensavo sarebbe stato il mio futuro oggi neanche mi piace. Non voglio fissarmi su qualcosa che si trasformerà. Probabilmente non mi vedo nell’atletica leggera per sempre perché mi dà tantissimo, ma non è mai stato il mio sogno. Ho cominciato per le mie qualità: prima giocavo a pallacanestro e sono ancora appassionatissimo».

 

Gimbo ha iniziato con il salto in alto nel 2009, da diverse gare studentesche erano emerse inequivocabilmente le sue capacità: «Tutti mi ripetevano che ero bravo. Mi dicevano “chi ha il pane non ha i denti”, “se non lo fai ti mangerai i gomiti”. Così, alla fine ho deciso di provare. Mi è dispiaciuto molto lasciare il basket ma è stata una scelta che ho preso consapevolmente, di cui sono contento. Avevo molto talento, i primi tempi sono stati fin troppo facili: come se davvero il mondo dell’atletica mi stesse aspettando. Sono migliorato da subito. In tre anni ho saltato prima 2,07 metri, poi 2,24, poi 2,25, poi 2,31 e mi sono qualificato per le Olimpiadi. Con pochissime difficoltà, mi godevo la vita da ragazzo».

 

Dopo sono arrivati i momenti duri, i problemi fisici, gli obiettivi enormi da raggiungere. E così l’atleta azzurro ha conosciuto la realtà del sacrificio e la costanza necessaria per portare a compimento le decisioni prese. Che, però, ha sempre saputo accompagnare con l’entusiasmo, la voglia di rompere schemi e convenzioni, il desiderio di stupire. Quel «pizzico di follia» che lo caratterizza fin da quando era bambino, in pedana e fuori.

 

«Nell’allenamento, nella dieta, nelle terapie sono uno scienziato, quasi un matematico. Ho una parte razionale molto disciplinata che si combina con il mio animo irrazionale che, invece, mi spinge ad andare oltre i limiti. Mi aiuta a sfogarmi e liberarmi. Mi permette di lasciar fuoriuscire le emozioni. Sono spontaneo: questo mi avvicina anche molto al pubblico, abituato a immaginare gli atleti, invece, come delle “macchine perfette”. Io voglio raccontargli chi sono, glielo devo visto l’enorme supporto che ho sempre ricevuto».

 

E così fa. Rompe le righe ogni volta che può: tenta salti impossibili, si lancia in acqua, si tuffa in braccio agli avversari, tra il pubblico, bacia la moglie, abbraccia gli amici quando esulta per una vittoria. Suona la batteria. Chiama gli spettatori, li fa sobbalzare, li invita a gioire, li travolge con il suo entusiasmo. Tutte le volte che Tamberi si esibisce in pedana c’è poco di scontato. Durante le gare indossa calzini e scarpe di colori diversi, si tinge i capelli, si è tagliato la barba a metà talmente tante volte da essere conosciuto in tutto il mondo come “halfshave”. «Un modo per stimolare me stesso nei momenti di difficoltà, per dirmi: “Non puoi fare una figuraccia visto che ti guardano tutti”. Ho iniziato a farlo parecchi anni fa. Per me era diventato un rito scaramantico dopo che in una gara saltai molto di più di quanto avevo pensato. Ma oggi non è più una prassi, mi rado così quando me lo sento».

 

«Gimbo, hai mai contato il tempo che hai passato in aria?», chiedo confidando nel suo estro, pensando alle migliaia di salti che ha fatto nella sua vita: «Eh no, il calcolo delle ore di volo ancora mi manca», ride. «Anche la premier Giorgia Meloni ti ha definito “orgoglio italiano” dopo Budapest. Che ne pensi?». «Sono orgogliosissimo di essere italiano. Una delle cose che mi rende più fiero è fare le migliori prestazioni quando ho la maglia dell’Italia. Mi dà una carica fortissima. Metto sempre il tricolore sulla spalla, per simboleggiare che sto portando il mio Paese in alto con me».