L’inclusione in Svizzera

«Mio figlio confinato in una scuola ghetto per le persone con disabilità»

di Sabrina Pisu, foto di Gianni Cipriano   27 marzo 2023

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<p>&copy; Gianni Cipriano</p>

Bambini e adolescenti nascosti alla vista e segregati in strutture differenziate. Sullo scandalo degli istituti di pedagogia specializzata nel Cantone di Ginevra sono intervenute anche le Nazioni Unite. «Separano i nostri ragazzi dai sani perché non sono produttivi»

La scuola a Ginevra per i bambini autistici e con disabilità è una sedia con una gamba rotta, come la scultura gigante in legno di fronte alle Nazioni Unite. Nella città in cui nel 1948 ha visto la luce la Dichiarazione universale dei diritti umani ci sono scuole solo per studenti «con problemi, bisogni educativi speciali o con disabilità».

 

Scuole senza valutazioni e diplomi. E senza interazione, o poca, con i bambini ritenuti “normali”. In Svizzera esiste «un’educazione segregativa per un gran numero di bambini con disabilità», denuncia l’Onu. Nel Cantone di Ginevra sono 50 le Ecps (Écoles de pédagogie spécialisée), istituti di “pedagogia specializzata”, che accolgono dai 10 ai 12 studenti dai 4 ai 20 anni, gestiti dall'Omp (Ufficio medico-pedagogico).

 

Una di queste è la Ecps di Dupuy, fuori dal centro urbano, come in molti casi. Lì ci dà appuntamento Yolanda Fernandez, la madre di Aydan: «Un 16enne a cui tutti i giorni viene ricordato di essere diverso perché ha la sindrome di Down». Non vuole un nome di fantasia, come altri genitori che temono ritorsioni. Ci indica un muretto nel cortile aperto dove sederci nell’attesa di Aydan. È preoccupata per la salute del figlio, sorveglia continuamente la scuola, un blocco grigio di cemento sotto un cielo scuro di pioggia.

 

«È la scuola della miseria, venuta su da un giorno all’altro nel maggio dello scorso anno, me l’hanno imposta», racconta. «È una struttura chiusa, solo per ragazzi disabili e con sindromi serie, dai 15 ai 18 anni, alcuni hanno crisi epilettiche, sono violenti l'uno con l'altro. È orribile, mio figlio è stato strangolato, è tornato a casa due volte con gli occhiali rotti. Hanno messo qui tutti i bambini per cui non c’era posto altrove, senza un programma pedagogico. All’Omp mi hanno detto che se non mi sta bene posso cambiare Paese, io resto qui». Un problema sociale, culturale e politico: «È una vergogna», continua, «manca una riflessione su come integrare questi bambini, un giorno adulti. Vogliono renderli invisibili».

È spaventata per il futuro: «Aydan non sa ancora leggere. Ho chiesto di incontrare un consigliere pedagogico ma non mi hanno dato nomi. Senza averlo conosciuto, mi hanno detto che ci sono gli “atelier protetti”, laboratori che insegnano a mettere dei bastoncini in un rotolo di carta igienica per fare un calumet della pace da vendere in alcuni negozi. Vorrei un lavoro giusto per lui».

 

Ha vissuto lo stesso «inferno» Valerie, nome di fantasia perché teme di perdere il suo impiego pubblico. Anche suo figlio che ha la sindrome di Down ha frequentato scuole specializzate. «Non ci sono informazioni pubbliche dettagliate sui requisiti per entrarci e i progetti educativi». Ha scritto centinaia di lettere all’Omp per cambiare le cose: «I genitori non parlano perché hanno paura di perdere il poco che hanno ottenuto dopo essersi battuti». Anche per suo figlio, 16 anni, hanno prospettato solo gli “atelier protetti” pagati 5 franchi l’ora, quando il salario minimo per legge è di 23 franchi: «È allucinante, dal punto di vista del diritto». Un anno fa ha deciso di scolarizzarlo a casa: «Sono felice di essermi liberata dell’Omp, un’istituzione che ci maltratta, mio figlio sta dimostrando ora le sue potenzialità, ma non ha amici. Ci costa 65mila franchi l’anno, aiutano fondazioni private ma non c’è certezza». Ora pensa di andarsene: «Qui siamo riconosciuti solo se siamo produttivi, per questo i nostri figli non sono scolarizzati, o poco e male. Devono stare a casa e l'Assurance-invalidité (Assicurazione invalidità, ndr) gli paga un salario. Non esistono, in pubblico nessuno guarda mio figlio o gli rivolge la parola».

 

La scarsità di risorse per l’inclusione scolastica in una delle città più ricche al mondo è vista come una «scelta». Bambini portati lontano dagli occhi della città, presi e riportati a casa ogni giorno con autobus. «Sono finanziati dal Cantone e alla guida ci sono migranti. Così come figli di migranti, rifugiati e richiedenti asilo sono la maggior parte dei compagni di nostra figlia. In queste scuole non ci sono solo bambini neuro-atipici, ma anche quelli con comportamenti ritenuti “disturbanti” dalle scuole ordinarie», racconta Marco, dal 2017 a Ginevra con sua moglie Chiara e la figlia Giorgia (nomi di fantasia). «Le è stato riscontrato un ritardo nello sviluppo generale, il pedo-psichiatra ci ha subito indirizzati verso una scuola specializzata», dice Chiara.

 

È una villa in campagna: «Un posto all’apparenza idilliaco che si è rivelato un ghetto, senza un programma di scolarizzazione, un personale impreparato chiedeva a noi cosa fare con nostra figlia che è autistica, a otto anni le hanno rimesso il pannolino». «Questi bambini sono parcheggiati», continua Marco, «sono un problema perché non sono una fonte di ricchezza, i “marci” vanno separati dai sani». L’inquietudine tra i genitori è aumentata dopo i casi di ripetute violenze fisiche e psicologiche al Foyer de Mancy, una struttura gestita dall’Omp che accoglie, giorno e notte, fino a 8 bambini e giovani con disabilità intellettiva o autistici.

Il cielo buio si apre in un diluvio sulla strada che porta a Collonge-Bellerive, alle porte di Ginevra, dove si trova quella che da «seconda casa» si è trasformata per anni in un luogo di orrore, con responsabilità anche a livello istituzionale. Elias ha un autismo severo, dal 2018 e per due anni è stato qui. «Aveva 11 anni, era scheletrico, nonostante questo lo hanno privato del cibo, come dimostra l’inchiesta. Si è automutilato ed è finito in ospedale per mesi, in anestesia totale diverse volte a settimana, per le ferite ha rischiato di perdere un braccio. Non deve ripetersi mai più», dice sua madre, Natacha Koutchoumov. «I bambini vegetavano, mio figlio passava le giornate a urlare e ferirsi: la sola soluzione per impedirgli di colpirsi era un lenzuolo di contenimento con cui avvolgerlo, un casco da rugby in testa e un letto con cinture di compressione. Senza un progetto educativo, che è già di per sé un grave abuso. Aveva chiari segni di violenze fisiche, il maltrattamento istituzionale si unisce a quello fisico».

 

Volevamo fare domande alla responsabile del Dipartimento ginevrino dell'istruzione pubblica, Anne Emery-Torracinta. Dopo l’incontro con Yolanda Fernandez, l’intervista è stata annullata e l’Omp ci ha denunciato per «violazione di domicilio» e fotografie non autorizzate.

 

L’Onu ha richiamato la Svizzera, in un rapporto dell’aprile scorso ha chiesto «la creazione di un'istruzione inclusiva di qualità» e l’eliminazione dai documenti pubblici di «termini dispregiativi» come «invalidità» e «impotenza». Verdi e socialisti hanno da poco presentato un progetto di legge «per includere gli studenti con bisogni speciali nelle scuole di quartiere, sia in classi regolari a gruppi di 3 o 4 con un insegnante ordinario e uno specializzato, sia in piccole classi specializzate, evitando le scuole separate», spiega il primo firmatario, il deputato socialista Cyril Mizrahi.

 

«Che lezione diamo ai bambini?», dice Marco. «Tutti meritiamo un posto nella società. Qui, ora. E per il futuro».