Il decano della Sociologia italiana racconta la sua vita e giudica il presente, dalla destra al potere alla tecnologia. E spiega cosa lo preoccupa di più: l’individualismo che uccide le collettività

Con Franco Ferrarotti è impossibile applicare la deferenza che si deve a chi ha raggiunto un’età venerabile perché la sua intatta passione per le idee e il linguaggio torrenziale con cui coinvolge l’interlocutore annullano ogni distanza. Il grande vecchio della sociologia italiana ha compiuto da poco 97 anni, ma niente, durante il nostro colloquio, lo farebbe supporre. La voce tonante, la velocità dei riflessi, i guizzi di ironia e anche l’elevato senso di sé rendono ancora incisive le sue riflessioni sulla realtà contemporanea e sulla sua vicenda di uomo e di intellettuale.

 

Professore ormai emerito di Sociologia, materia della quale ha ottenuto nel 1960 la prima cattedra italiana, ha scritto decine di saggi e ultimamente anche un libro di poesie, di cui vorrà declamarci qualche verso. Ma, da appassionato analista della società, i suoi primi pensieri non possono che riguardare questo difficile presente.

 

Professor Ferrarotti, lei che ha vissuto un gran numero di cambiamenti sociali e politici, come si trova in questi tempi nuovi?
«Vivo il paradosso di essere nato sotto il fascismo e di sapere che morirò sotto il fascismo».

 

Quindi considera questo governo fascista?
«E che altro potrebbe essere? Dopo gli applausi a Berlusconi nel Duomo di Milano ci siamo trovati fascisti senza essercene accorti. Posso soltanto augurarmi che questo governo, grazie all’Europa, ci dia un fascismo meno cruento di quello passato. Ma ci sono anche altri pericoli, come l’avvento di una terza guerra mondiale ».

 

Teme davvero che possa accadere?
«Sì, a meno che le classi dirigenti non si decidano a riconoscere che il mondo non può più essere unipolare o bipolare, come pensano gli Stati Uniti, che non hanno coscienza storica e occupano una posizione imperiale senza mai aver avuto un passato imperiale. Ma per fortuna c’è stato il Covid».

 

Per fortuna?
«Non si meravigli. Grazie al Covid abbiamo scoperto l’unità del genere umano perché la pandemia ha colpito tutti: sviluppati, arretrati, tecnicizzati, selvaggi».

 

Però soprattutto gli anziani. Il virus ha esposto le persone della sua età a un forte rischio. Non lo ha temuto?
«È diffusa l’idea di considerare gli anziani come un inciampo, ma è ora di smetterla di definirli fragili con palese degnazione. Per il solo fatto di essere diventati vecchi, hanno dimostrato di essere più forti della media».

 

Pensa a se stesso?
«Penso a Edgar Morin e ai suoi 102 anni di lucidità. Ma se devo parlare di me, le assicuro che non sono stato a letto un solo giorno in vita mia. E non è certo un virus che può preoccuparmi».

 

Che cosa la preoccupa invece?
«L’indebolimento del legame sociale che tiene insieme la collettività. Vivere vuol dire convivere, riconoscere l’altro praticando un’empatia creatrice, tema su cui l’anno scorso ho pubblicato anche un saggio. Invece stiamo facendo tutto il contrario, guardiamo solo a noi stessi, ci isoliamo e in questo modo ci illudiamo di rafforzarci. Sa che cosa ha creato tutto ciò?».

 

Me lo dica.
«L’economia di mercato che è così forte da trasformare la società degli uomini in una società di mercato. Quando tutti i rapporti diventano utilitaristici, non c’è più società, ma un foro di ricatti reciproci e tornaconti individuali. E i giovani ne sono le prime vittime».

 

Spesso lei parla dei ragazzi di oggi con toni poco benevoli. Che cosa non va in loro?
«Sono decentrati, possono andare ovunque e quindi da nessuna parte, non riescono più a interrogarsi perché non hanno più la capacità di chiedersi chi sono, il motivo per cui sono al mondo e che cosa vogliono fare».

 

Possono fare ben poco, condannati come sono al precariato.
«È vero ed è una tragedia perché non possono progettare la propria vita. Ma sono anche vittime di un eccesso di informazioni mentre l’umano è ancora una macchina lenta. Assegnando la memoria al computer si perde la memoria interiore profonda».

 

Sembra che non apprezzi nulla delle grandi innovazioni tecnologiche.
«Non mi fraintenda. Il papa ha detto che internet è dono di Dio e io aggiungo che lo è per quelli che lo fabbricano, non per i ragazzi che hanno bisogno di riflettere e indugiare su se stessi. Mi rendo conto che parlo come un parroco di campagna, ma oggi la vita interiore è fondamentale».

 

E lei invece che ragazzo è stato? Si guardi indietro e ce lo racconti.
«Intanto ho visto la società precedente, quella che ci ha portato fino a qui».

 

Com’era?
«Schiava della velocità, innamorata della tecnica, con la quale credeva di risolvere tutto, fino al delirio di immaginare un mondo affidato all’intelligenza artificiale. La tecnica è importante, ci dà l’acqua calda, ci consente di muoverci restando seduti in automobile, ma ha un valore puramente strumentale, non finale. Non può dirci da dove veniamo, dove siamo, dove andiamo».

 

Stavamo parlando di lei, del ragazzo che è stato…
«Beh, ora che sono vicino alla fine della mia corsa mi domando spesso che cosa ho combinato».

 

Che cosa si risponde?
«Che ho avuto cinque vite: la prima come traduttore, una scelta fatta per fame. La seconda come consulente industriale accanto a un grande uomo: Adriano Olivetti. Fin dal primo contatto ci fu tra noi una consonanza profonda, qualcosa che somiglia a quello che secondo Platone accadeva tra Socrate e il giovane Fedro: «Pupille che si vedono riflesse le une nelle altre». Sono stato l’ultima persona a cui ha telefonato prima di salire sul treno dove poco dopo sarebbe morto».

 

Lei prese il suo posto in Parlamento come deputato del Movimento di Comunità. è la sua terza vita?
«No, la quarta. Nella terza sono stato diplomatico internazionale per la Oece, l’organizzazione istituita nel 1948 per coordinare il Piano Marshall. In Parlamento ero invece subentrato ad Olivetti già nel 1959 quando lui si dimise. Poi non mi sono più voluto ripresentare».

 

Perché?
«Il Parlamento non faceva per me. Moro mi chiamava “il nostro giovane Merzagora” senza capire che questo mi faceva vomitare».

 

Resta la quinta vita.
«La più importante e la più lunga. Ho avuto la prima cattedra in Sociologia nel 1960. Poi ho sempre insegnato: in Italia, a Parigi, in Sud America, a Chicago, a Tokyo...».

 

Lei sa che all’università di Roma aveva fama di essere un seduttore? Posso dirlo con sicurezza perché sono stata una sua studentessa.
«Non soltanto all’Università. è una fama che mi sono portato in tutti i miei incarichi. Avevo come vizio la curiosità infinita. E le donne sono continenti sconosciuti da esplorare, misteriosi, fondamentali come la poesia e la musica».

 

Se ci fosse già stato il MeToo avrebbe passato i suoi guai.
«Ma io non miravo al possesso! Cercavo la contemplazione della donna, quell’essere che nel momento in cui ti attira, ti consuma. Non ero come Pavese che amava le donne ma le viveva come una dannazione. Sono convinto che si salvano soltanto i seduttori e i dongiovanni perché non si buttano mai completamente in una situazione. E oggi le posso dire con tranquillità che muoio come un seduttore e un dongiovanni».

 

È la seconda volta che accenna alla morte. Ci pensa spesso?
«Sto cercando di capire che cosa ho fatto e che cosa ho imparato per andare con questo bagaglio incontro alla morte. E sto scoprendo di essere un vegliardo neonato. A volte non distinguo la differenza tra il giorno e la notte. Vivo così, in base a provocazioni intellettuali e corporali. Questa vita sparpagliata è anche una vita felice».

 

Che cosa le dà questa felicità?
«Il fatto che sia una vita. È vita, non c’è altro. Hai l’idea che sta finendo e non sai quando. Ho pubblicato da poco un libro di poesie, intitolato “L’amica bisbetica” che è, appunto, la morte. Le dico qualche verso?».

 

Certo.
«Una poesia comincia così: “La morte verrà / verrà / non si sa / nessuno la vede...” E finisce: “ma anche se verrà a notte fonda / liberandomi da questa vita errabonda / sarà un’amica squisita”».

 

Prima di lasciarla la riporto al suo mestiere di sociologo. Che società sarà quella che ci aspetta?
«Saremo quelli che siamo stati, a meno che non si recuperi il senso del limite e il valore della vita interiore. Altrimenti saremo come il viaggiatore di Marco Aurelio che si appresta, corre, va, ma ha dimenticato lo scopo del viaggio lungo la via».