La denuncia
La filiera della carne italiana si regge sugli schiavi
Rischi per la salute, subappalto selvaggio, precariato, salari bassi e iniqui sono la norma in questa industria. Dove, solo nel nostro Paese, lavorano oltre 20 mila persone
In Europa, nella sua filiera, lavora circa un milione di persone. Averla a tavola è sempre stato sinonimo di prosperità, a prescindere dagli allarmi di chi la ritiene cancerogena e dalla svolta vegetariana di molti. Eppure non è tutta oro la carne che cuoce in padella. Nella relativa industria, buona parte degli occupati è assunta da ditte in subappalto o agenzie di somministrazione. Il che si riverbera in busta paga. Il guadagno medio, infatti, è inferiore del 40-50 per cento rispetto a quello dei colleghi dipendenti con la fortuna di un contratto collettivo nazionale vecchia maniera. Anche se quest’ultimo è spesso un Multiservizi, più conveniente del Ccnl agroalimentare. I primi ad additare le sperequazioni tra chi svolge le stesse mansioni sono stati i sindacati continentali e il quotidiano Guardian, che ha condotto un’inchiesta in vari Paesi. Italia compresa.
Nella penisola, sono oltre 20 mila i lavoratori impiegati e tra questi tantissimi i migranti, più del 50 per cento nella macellazione. È il precariato il loro approdo. Se si circoscrive lo sguardo alla carne suina tricolore, come ha fatto una ricerca finanziata dall’Ue, parecchie cooperative beneficiarie della deriva subappaltante risultano fittizie, «istituite dalle aziende per sfruttare la flessibilità del lavoro e i vantaggi fiscali». Il taglio delle spese, in primis.
È stato appena pubblicato il report dell’associazione Terra!, dal titolo “Cibo e sfruttamento – Made in Lombardia”. Un’indagine on the road attraverso le più sofisticate forme del caporalato di settore nella Regione ammiraglia dell’economia patria. Un capitolo s’intitola “La terra dei suini”. Terra! è entrata in alcuni allevamenti in provincia di Mantova e Cremona. La Lombardia accoglie la metà dei capi di maiale presenti nell’intero Stivale: oltre 4 milioni. Se ne ricavano i prosciutti, le salsicce e le bistecche che poi occhieggiano dagli scaffali dei supermercati. Solo che i produttori riducono all’osso i costi per non vedersi precludere le vie d’accesso privilegiate alla Gdo (Grande distribuzione organizzata), che vive di offerte e prezzi bassi. Anche di fettine e hamburger. Perciò proliferano le coop spurie, dove finiscono soprattutto gli stranieri, più vulnerabili e sotto scacco.
Ci sono, poi, i rischi per la salute. Un j’accuse in tal senso l’ha sferrato un mese fa la Rete Nazionale Lavoro Sicuro, parlando delle «pesantissime condizioni di lavoro nell’industria delle carni» a Modena e dintorni. «Gli addetti allo scarico della carne dai camion frigo dichiarano di spostare pesi fino a 60 chilogrammi. L’arrivo dei camion è continuo. La velocità delle operazioni sul nastro, la loro frequenza, l’uso di lame determinano rischi di ferimento. Si sono già verificati numerosi incidenti». Nel documento si legge, inoltre, che «le temperature negli ambienti lavorativi sono troppo basse: esistono situazioni di stress termico dovute al transito in ambienti con differenze sino a 38 gradi». Mentre dilagano le patologie muscolo-scheletriche. Cortocircuiti della modernità: ci si scanna per il sacrosanto benessere animale, ma si tace sui lavoratori sottopagati di queste catene di montaggio sfibranti.