I Dialoghi de L’Espresso

«Più asili contro la camorra nel nome di mio zio, Giancarlo Siani»

di Anna Dichiarante   19 settembre 2023

  • linkedintwitterfacebook

Gianmario Siani è il nipote dell’unico giornalista ucciso dai clan in Campania. Tiene viva la sua memoria con la Fondazione a lui dedicata. Anche se non l’ha mai conosciuto. «Contro la mafia serve investire in istruzione, cultura, lavoro. Partendo dai bambini. Intitoleremo un nido di Bacoli a Giancarlo»

Quando Gianmario Siani arriva al Palazzo delle Arti di Napoli, la somiglianza si nota subito. Quell’aria di famiglia con suo zio Giancarlo – l’unico giornalista assassinato in Campania per mano della camorra – si scorge nei tratti del volto, nel sorriso, nei capelli folti sulla fronte. Così, in questa città, il cognome con cui si nasce può segnare l’esistenza. E Gianmario, classe 1990, avvocato penalista, il suo lo ha sempre portato «con naturalezza», pur avendo preso via via coscienza della responsabilità che ne deriva. Perciò viene spesso qui: dal 2019, nel museo partenopeo dell’arte contemporanea, è stata allestita una “Sala della memoria” dedicata alle vittime innocenti della criminalità organizzata e in particolare a Giancarlo. Uno zio mai conosciuto, una presenza costante.

 

È un caldo pomeriggio d’estate, come calda era la sera del 23 settembre 1985. Quella in cui Siani, 26 anni appena compiuti, venne ucciso dai colpi sparati da due killer che lo attendevano sotto casa, in un parco del Vomero. Gianmario è figlio di Paolo, il fratello maggiore di Giancarlo, primario di Pediatria, ex parlamentare e promotore di molte iniziative a tutela dei diritti dell’infanzia. «Sebbene io sia nato dopo, questa storia è parte di me», dice il nipote, presidente della Fondazione intitolata allo zio: «Mia sorella Ludovica, di tre anni più grande, è vicepresidente. Per noi è stato normale entrare nel ruolo quando, nel 2019, si è deciso di dare una nuova veste all’associazione culturale creata nei mesi successivi alla morte di Giancarlo. Ormai siamo adulti, è giusto che diamo il nostro contributo». Entrambi si sentono «testimoni di seconda generazione», investiti del dovere di tramandare la memoria.

 

Ecco, quindi, il senso della sala al Pan. Al centro della stanza è parcheggiata la Citroën Mehari verde di Siani: al volante di quel fuoristrada lo sorpresero i sicari. Rientrava dal lavoro, dalla redazione centrale del Mattino di Napoli dove aveva conquistato una scrivania dopo un lungo periodo da cronista abusivo, corrispondente da Torre Annunziata. Ma prima del contratto di assunzione irruppe la camorra. Troppo scomode le sue inchieste, troppo illuminanti nell’analisi della realtà e nella denuncia delle connivenze politiche. Soprattutto l’articolo in cui svelò i retroscena dell’alleanza tra i clan Nuvoletta di Marano e Gionta di Torre Annunziata. Quando, nel giugno 1985, il boss Valentino Gionta venne arrestato nella roccaforte degli alleati, Siani scrisse che la sua cattura era il prezzo pagato dagli stessi Nuvoletta per siglare la pace con gli affiliati del capo casalese Antonio Bardellino e per confluire nella Nuova Famiglia: un’accusa di tradimento vendicata con il sangue.

 

«Mio zio rappresenta agli occhi dell’opinione pubblica un’enorme ingiustizia», spiega Gianmario: «Era un giovane, simile a tanti altri, ed è stato ucciso solo perché faceva bene il suo mestiere. A chi gli chiedeva se avesse paura di mettersi contro potenti boss rispondeva che non ce n’era motivo: si limitava a riportare i fatti con rigore. Era un cronista, una persona comune, insomma, non intendeva calarsi nei panni dell’eroe. E proprio per questo, oggi, la gente lo percepisce vicino, lo chiama semplicemente per nome come si fa con un parente o un amico. Così noi abbiamo insistito affinché nell’immaginario collettivo si cristallizzassero le fotografie del suo viso sorridente piuttosto che quelle del suo corpo senza vita dopo l’agguato».

 

Per ottenere tale risultato, però, sono serviti tempo e fatica. «Dopo l’omicidio è cominciata una lotta contro l’oblio e contro la macchina del fango, alimentata da depistaggi utili a confondere le indagini e a screditare la vittima. Una lotta che si sono addossati per la gran parte mio padre e Geppino Fiorenza, attuale presidente onorario della Fondazione. Insieme, in sella a una Vespa, attraversavano Napoli cercando scuole in cui parlare di Giancarlo: rivolgersi a bambini e ragazzi, instillare in loro gli anticorpi alla sopraffazione mafiosa era l’obiettivo principale. Ma li accoglievano pochi presidi illuminati o maestri impietositi. “Che cosa c’entra la scuola con la camorra?”, era la domanda più frequente». Piano piano s’è capito che quello è esattamente il contesto in cui si può estirpare la malapianta: «Ora gli inviti sono numerosi, vengono da ogni angolo d’Italia. Non è facile gestirli, ma lo facciamo con passione; anzi, ci emoziona molto il fatto di essere richiesti in posti lontani: significa che la figura di mio zio è nota anche lì».

 

Del resto, Gianmario non ricorda un momento in cui questa storia sia stata raccontata a lui e a Ludovica per intero. È stata una progressiva introiezione. «La casa dei miei nonni era tappezzata d’immagini dello zio, siamo cresciuti sotto il suo sguardo. Io, soprattutto, ero abituato ai lapsus che scambiavano il mio nome con il suo. Eppure di lui non sapevamo quasi nulla. Ci dicevano che abitava tra gli angeli; visto che a noi piccoli veniva ripetuto di non toccare le prese elettriche, mi ero convinto che fosse morto violando il divieto. Poi abbiamo iniziato a seguire le iniziative dell’associazione, a leggere, ad ascoltare i suoi colleghi o magistrati come Armando D’Alterio, che condusse l’inchiesta sull’omicidio. Abbiamo approfondito la vicenda giudiziaria, da cui ci avevano tenuti al riparo; nemmeno mio padre partecipava al processo, preferiva impiegare quelle ore per incontrare scolaresche. Allora abbiamo scoperto la verità. Ma chiedere ci costa ancora oggi: le parole su mio zio si mischiano sempre a dolore, nostalgia, talvolta rabbia».

 

Di certo, Siani è diventato uno dei simboli di Napoli. E “Fortapàsc”, il film di Marco Risi sulla sua vita, ha aiutato. «Quando la Mehari, dopo il dissequestro e prima di essere ospitata al Pan, è stata rimessa in moto, veniva riconosciuta dalla gente per strada. La città è stata sconvolta dall’assassinio di mio zio, anche se forse non ha imparato dagli errori». L’amarezza di Gianmario viene confermata dalla cronaca. Nella Campania ferita dal terremoto dell’Irpinia del 1980, Siani s’imbatté nelle infiltrazioni camorristiche occupandosi di ricostruzione, crisi industriali, lotte sindacali, abusivismo e droga. Dopo decenni, la sostanza non è cambiata.

 

Diversa, invece, è la sensibilità anche fuori dai confini regionali: «Gli insegnanti parlano spontaneamente di Giancarlo nelle classi. Sono centinaia i luoghi che gli sono stati dedicati, in alcuni casi superando diffidenze e lungaggini burocratiche, dall’istituto comprensivo di Pianura all’aula magna delle elementari di Lendinara. Agli studenti che m’interrogano su cosa fare rispondo che è necessario investire con urgenza in istruzione, cultura e lavoro. Contro la criminalità organizzata, la repressione non basta; occorre prevenire e interrompere l’afflusso di nuove leve. Se la mafia evolve, si aggiorni pure l’antimafia. Come? Fornendo risorse e speranza laddove l’illegalità pare scelta obbligata. Con un piano di sviluppo per il Sud e maggiore consapevolezza al Nord. Non rassegniamoci ad allontanare i ragazzi dalle comunità d’origine, che si tratti di Reggio Calabria, Palermo o Quarto Oggiaro: risaniamo quei territori e garantiamo le stesse opportunità che si trovano altrove. Di fronte alle violenze di Caivano, guardiamo al misero numero di posti disponibili negli asili nido rispetto alla popolazione e comprenderemo perché nascere qui suoni come una condanna».

 

Alla mente torna l’ultimo articolo di Siani, pubblicato sul Mattino del 22 settembre 1985: «Li chiamano “muschilli”, gli spacciatori in calzoncini, i corrieri-baby… Li utilizzano per non correre rischi. I “muschilli” sono agili, si spostano da un quartiere all’altro e non danno nell’occhio, sfuggono al controllo di polizia e carabinieri. Ma soprattutto sono minorenni: anche se trovati con la bustina d’eroina in tasca non sono imputabili… Per loro quale futuro? Se non diventano consumatori di eroina, se riescono a sopravvivere, è difficile che possano imboccare altra strada che non sia l’illegalità». Ecco perché, tra i progetti che si stanno realizzando per l’anniversario della morte, Gianmario considera un bel segnale l’intitolazione allo zio di un asilo nido a Bacoli: «Bisogna proteggere i bambini già in quella fascia d’età o si rischia d’intervenire tardi».

 

Questa è la missione di Gianmario, Ludovica e altre «seconde generazioni». Da Goffredo Locatelli, che celebra il ricordo del nonno Marcello Torre, sindaco di Pagani ucciso dalla camorra nel 1980, a Luisa Impastato, nipote di Peppino, vittima di Cosa nostra nel 1978, che presiede la Casa Memoria di Cinisi. Testimoni indiretti che hanno raccolto la sfida dell’impegno.