Razzismo e amichettismo non trovano posto nella squadra azzurra che gareggia ai Giochi. Per superare le quaranta medaglie vinte a Tokyo tre anni fa. E mettere a tacere il livore verso chi non è somaticamente italiano

Nessuna discriminazione razziale o di genere. Sostanziale irrilevanza delle dinamiche relazionali, del nepotismo, dell’amichettismo, del cognatismo, dell’associazionismo più o meno occulto. Meritocrazia radicale formata senza percorsi di favoritismo sociale ma attraverso il lavoro, il lavoro e ancora il lavoro. L’articolo uno della Costituzione italiana sta per avverarsi. Succede una volta ogni quattro anni. Quest’anno la finestra dura dal 26 luglio all’11 agosto. Sono i Giochi olimpici e dovunque si tengano nel mondo ci regalano il sogno breve di essere migliori di quello che siamo.

 

Sulla carta lo spettatore nazionalista ma non sciovinista si potrà divertire. La sfilata dello Stade de France di Parigi, in apertura di Giochi, mette in mostra la devozione italiana verso il lavoro ma anche una quantità elevata di talento, un altro elemento di cui in tempi normali si pianifica efficacemente la distruzione. E se a questo proposito viene in mente il calcio, dopo la figura atroce di Euro 2024, il défilé parigino sarà una bella occasione per dimenticare le tristezze del pallone.

 

La bellezza di questi Giochi risalta rispetto ai traffici del calcio dove contano il procuratore e il salario, dove si scende in campo annoiati e per passare la palla indietro, dove è festa grande quando si spezzano le reni all’Albania e si pareggia con la Croazia all’ottavo minuto di recupero.

 

La squadra italiana a Parigi non vuole soltanto battere il record di quaranta medaglie ottenuto a Tokyo ma, traguardo molto più significativo, cercherà di tornare fra le prime sette potenze dello sport internazionale. In Giappone eravamo arrivati decimi, noni nel 2016 a Rio de Janeiro, a Londra nel 2012 e a Pechino nel 2008. Dopo i record lontani di Los Angeles 1932 (secondi dopo gli Usa in un’edizione senza sovietici) e di Roma 1960 (terzi dopo Usa e Urss), il migliore piazzamento è quello di Atlanta 1996 con il sesto posto e tutte le grandi nazioni in campo senza i boicottaggi di Mosca 1980 e di Los Angeles 1984.

 

Con 403 partecipanti l’Italia è la settima delegazione più numerosa con un podio formato dagli Stati Uniti (591), dalla Francia organizzatrice (571) e dalla Germania (468). Le donne sono 194 e sono sempre più vicine alla parità perfetta con gli uomini. Nella seconda Olimpiade di Tokyo, tre anni fa, erano 184. Nella prima Olimpiade di Tokyo, sessant’anni fa, erano undici su 159 partecipanti. È un passo avanti gigantesco per un intervallo di tempo così limitato ed è ancora una volta frutto di merito. Le Olimpiadi non sono una festa a inviti.

 

La novità di Parigi 2024 in chiave italiana sta nell’emergere di atleti in discipline e sport dai quali l’azzurro era sparito da un pezzo. E sono discipline di eccellenza, con il massimo rispetto per chi gareggia nei settori più sottofinanziati del medagliere.

 

Gli olimpionici celebrati nello spazio della loro performance ai Giochi e poi dimenticati per i quattro anni successivi ci saranno ancora, e sono i veri eroi dello spirito del barone De Coubertin. Ma non è certo un danno che l’Italia occupi di nuovo posizioni di prestigio nell’atletica leggera e, in particolare, in alcune fra le competizioni più seguite della disciplina regina, come le gare di velocità dove Marcell Jacobs e i suoi compagni sfidano per la vittoria statunitensi e giamaicani, il salto in alto con Gianmarco Tamberi o il getto del peso, con il fiorentino Leonardo Fabbri e l’oriundo sudafricano Zane Weir.

 

Per alcuni dei nostri rappresentanti, come lo stesso Jacobs o l’emergente Chituru Ali, comasco di padre ghanese e madre nigeriana, vale la frase che l’eurodeputato e bestsellerista Roberto Vannacci ha dedicato alla fenomenale pallavolista Paola Egonu. «Anche se è italiana di cittadinanza, è evidente che i suoi tratti somatici non rappresentano l’italianità». Querelato per diffamazione e assolto nonostante la frase «impropria e inopportuna» (chi sa che altro serve per diffamare), il generale Vannacci sembra avere mancato il nocciolo del problema. Nel mondo in cui la legge la fanno il cronometro, una schiacciata sulla riga, una smorzata di rovescio, non frega nulla a nessuno se sei scuro come Egonu, se hai i dreadlock come il fondista Yeman Crippa, se hai la barba rasata a metà come Tamberi o se sembri una carota lunga 188 centimetri come il numero uno del tennis mondiale Jannick Sinner, costretto a dare forfait per tonsillite.

 

Nell’elenco dei 403 nomi ci sono Ayomide Folorunso, Catalin Tecuceanu, Yassin Bouih, Osama Zoghlami, Daisy Osakue, Miriam Sylla, Darya Derkach, Adrián Carambula, Gonzalo Echenique e molti altri dall’italianità somaticamente dubbia, secondo gli gli autarchici in cerca di consenso elettorale.

 

Grazie alla meritocrazia del lavoro e del talento, il movimento olimpico italiano ha aggiunto varietà al suo menu tradizionale fatto da sempre di scherma, di nuoto più recentemente, di rematori, di gente che spara, ma non a candidati per la Casa Bianca e, appunto, dei piccoli sport che vivono di Olimpiadi e che non smuovono grandi aziende, sponsor e folle oceaniche.

 

Per Parigi 2024 il Coni guidato da Giovanni Malagò ha confermato il montepremi dei Giochi postpandemici di Tokyo, previsti nel 2020 e disputati l’anno dopo. Le medaglie sono quotate a 180 mila euro lordi per l’oro, 90 mila per l’argento e 60 mila per il bronzo a ogni premiato. Il clamoroso trionfo italiano nella 4x100 di atletica della scorsa edizione è dunque costato 720 mila euro, come la vittoria nell’inseguimento a squadre per i ciclisti Filippo Ganna, Jonathan Milan, Francesco Lamon e Simone Consonni. Il totale dei premi tre anni fa è arrivato appena sotto i 7 milioni di euro.

 

Soldi ben spesi soprattutto se si pensa che il solo Nicolò Barella, centrocampista dell’Inter e della triste nazionale di Luciano Spalletti, prende 6,5 milioni l’anno. Netti.

 

Nonostante la distanza siderale con i salari del calcio, il business guadagna terreno nei Giochi che, fino a pochi decenni fa, erano vietati ai professionisti. A Parigi una delle federazioni internazionali più ricche, la World athletics organizzatrice dei meeting della Diamond league, ha arricchito il piatto delle federazioni nazionali con una dotazione di 50 mila dollari a testa per chi vincerà l’oro. Gli staffettisti divideranno per quattro, al contrario di quanto fa il Coni. È una prima assoluta che a Los Angeles 2028 sarà estesa per somme decrescenti anche al resto del podio.

 

Non tutto è oro nella cavalcata olimpica. Fra Tokyo e Parigi c’è stato lo scandalo delle “farfalle”, come vengono chiamate le atlete della ginnastica ritmica. Le denunce delle ragazze, spesso giovanissime, hanno portato alla luce presunti abusi e vessazioni da parte di chi curava allenamenti e parte tecnica. Niente a che vedere con la ferocia imperante negli anni Settanta, come ha raccontato la stella della ginnastica Nadia Comaneci, ma i tempi sanno cambiare anche in meglio.

 

Il Settebello di pallanuoto, un pilastro della tradizione sportiva con tre ori olimpici e quattro Mondiali, trema per le difficoltà finanziarie della corazzata Pro Recco che dà sette atleti sui tredici convocati dal commissario tecnico Sandro Campagna. Più di metà della squadra deve confrontarsi con il disimpegno annunciato dal proprietario Gabriele Volpi, petroliere recchelino naturalizzato nigeriano in una bizzarra inversione di marcia rispetto alla strada percorsa da molti atleti di origine africana.

 

Nell’elenco delle brutte storie a lieto fine c’è la vicenda di Frank Chamizo, lottatore cubano diventato italiano per matrimonio e medaglia di bronzo a Rio 2016. La lotta, come la ginnastica, è una disciplina affidata agli arbitri. Il fattore umano ha rischiato di tenere Chamizo fuori dai Giochi dopo un tentativo di corruzione subito in un torneo di qualificazione e un incontro perso in circostanze così discutibili da portare alla sospensione dei giudici di gara. L’atleta si batterà ai Giochi per essere stato ripescato a svantaggio di due avversari, un russo e un bielorusso, che con gli imbrogli arbitrali non c’entrano ma sono stati esclusi in quanto favorevoli a Vladimir Putin. Un ex cittadino cubano torna quindi in competizione grazie a un reato di opinione commesso da due atleti di area ex Urss. È sul filo del paradosso ma la politica sportiva nei paradossi e nell’ipocrisia ci sguazza dai tempi degli antichi greci (articolo a pagina 17). Parigi servirà anche a capire quale sarà il futuro dello sport olimpico italiano e del Coni in particolare, con le elezioni del nuovo presidente e della giunta, oltre che delle varie federazioni sportive.

 

Le elezioni precedenti si sono tenute a maggio del 2021, prima dei Giochi rinviati per la pandemia. Malagò, in carica dal febbraio 2013, aveva vinto con un tonante 55 a 13 contro lo sfidante Renato Di Rocco, ex della Federciclismo sostenuto dall’opposizione storica cioè da Angelo Binaghi, presidente della Federtennis, e da Paolo Barelli, capogruppo di Forza Italia alla Camera e numero uno di quella Federnuoto che ha nove atleti militanti nel gruppo sportivo Canottieri Aniene, come a dire la seconda casa di Malagò.

 

Il Decreto Sport, passato alla Camera e in via di conversione al Senato entro fine luglio, non prevede un quarto mandato del presidente uscente, nonostante il tentativo di emendamento da parte di un gruppo di deputati del Pd. Fra Malagò, 65 anni, e il ministro meloniano Andrea Abodi, di un anno più giovane, non c’è affiatamento salvo la personale cortesia fra chi si conosce da decenni. Eppure era stato proprio Malagò a fare cambiare idea all’allora ministro del governo Gentiloni, Luca Lotti, che non sembrava troppo incline a nominare Abodi alla presidenza dell’Istituto del credito sportivo (Ics) nel febbraio 2018. Peraltro, fu il ministro Lotti a introdurre il limite dei tre mandati per la presidenza del Coni, che è un ente pubblico al contrario delle federazioni che sono enti di natura privatistica e che possono prevedere un quarto mandato in caso di voto con maggioranza qualificata.

 

Si è sempre detto che lo sport deve essere autonomo dalla politica. Non è vero e, rare volte, è giusto che sia così. Se resta uno spazio libero dal tifo nazionalista si potrà sempre sostenere la nazionale rifugiati, composta dagli atleti-borsisti e voluta nel 2015 dal tedesco Thomas Bach, presidente del Cio. «Siamo in 37 per 120 milioni di rifugiati nel mondo», ha detto il canoista di origine iraniana Saeid Fazloula. «Vogliamo fare sapere che non siamo solo 37 atleti, ma centinaia di milioni di rifugiati senza casa e senza speranza». Se di norma ci si ammazza di lavoro per arrivare ai Giochi, i rifugiati gareggiano a handicap. Alla terza Olimpiade, meritano la loro prima medaglia.