Violenza di genere
Basta silenzi, qui serve tanto rumore
Lo invocano i familiari di Giulia Cecchettin, mentre il ministro Valditara squaderna un campionario di segno esattamente contrario agli intenti della Fondazione
A un anno dal femminicidio di Giulia Cecchettin, il preside del liceo Tito Livio di Padova, lo stesso che ha frequentato la ragazza, ha vietato il «minuto di rumore» che gli alunni avevano organizzato in ogni classe. Chiavi, borracce e righelli sbattuti all’unisono contro i banchi in una protesta diventata simbolo della lotta alla violenza di genere. «Per interiorizzare un anno di riflessioni, dibattiti, esternazioni, credo che la nostra strada debba essere il silenzio», ha scritto in un comunicato il dirigente dell’istituto. La stessa circolare invitava gli studenti ad accendere di sera una candela sui balconi delle loro case.
L’appello a vivere in maniera privata e silenziosa un evento che ha segnato coscienze e riempito piazze non è solo in contraddizione con la volontà dei familiari della vittima, ma testimonia lo scollamento dalla realtà di alcune istituzioni. Il ricordo di Giulia Cecchettin è un fatto pubblico e politico. Pensare, un anno dopo, di riportarlo nel silenzio delle case, di “interiorizzarlo” aspettando che la notte spenga tutte le candele, è come illudersi di fermare il vento con le mani. I ragazzi, alla fine, hanno fatto ancora più rumore.
Non potevano fare altrimenti, il messaggio è stato chiaro fin da subito. «Per Giulia non fate un minuto di silenzio, per Giulia bruciate tutto», scriveva un anno fa sui suoi social Elena Cecchettin. «L’assassino di mia sorella», continua il post, «viene spesso definito come mostro, invece mostro non è. Un mostro è un’eccezione, una persona della quale la società non deve prendersi la responsabilità. E invece la responsabilità c’è. I “mostri” non sono malati ma figli sani del patriarcato e della cultura dello stupro». La forza di Elena e Gino Cecchettin è stata quella di rendere pubblico un dramma personale e far sì che la loro diventasse la lotta di tutte e di tutti.
Con lo stesso obiettivo è nata la Fondazione Giulia Cecchettin, presentata con una conferenza alla Camera dei deputati. Si occuperà di contrasto alla violenza di genere attraverso campagne di sensibilizzazione, sostegno alle vittime, supporto alla ricerca scientifica e progetti di educazione nelle scuole. Un’idea che nasce dalla volontà di «trasformare il dolore in significato, la perdita in impegno». «In questo ultimo anno», ha detto Gino Cecchettin, «ho ricevuto messaggi strazianti di donne intrappolate nella paura. Questa fondazione è un richiamo collettivo, che spinge a guardare oltre noi stessi». L’incontro è stato introdotto dal vicepresidente della Camera Giorgio Mulè, che ha ricordato come «in questa sala non ci sono differenze ideologiche». Da lì in poi, però, è stato proprio un susseguirsi di differenze ideologiche, di approcci divergenti e a tratti inconciliabili. Da un lato i membri della Fondazione, impegnati a sottolineare la natura strutturale della violenza di genere. Dall’altro un esponente del governo che liquida la lotta al patriarcato come «una visione ideologica».
Curiosamente, l’ideologia è sempre quella degli altri. Se per Gino Cecchettin i femminicidi «non sono una questione privata o isolata, ma sempre un fallimento collettivo», il ministro dell’Istruzione e del Merito Giuseppe Valditara fa delle scelte lessicali opposte: «Il patriarcato è finito. Piuttosto, ci sono ancora nel nostro Paese residui di maschilismo. Occorre non far finta di non vedere che l’incremento di fenomeni di violenza sessuale è legato anche a forme di marginalità e di devianza in qualche modo discendenti da un’immigrazione illegale». Tralasciando le ambiguità linguistiche nascoste dietro formulazioni vaghe come «non far finta di non vedere» o «in qualche modo discendenti», ciò che salta all’occhio è l’uso di parole come “residui”, “marginalità” e “devianza”. Nella visione di Valditara la violenza di genere è un incidente di percorso, dovuto a delle eccezioni da sanzionare, a degli outsider da allontanare. Il contrario di ciò che aveva scritto Elena Cecchettin e che ha dovuto ribadire in risposta al ministro: «Se si ascoltasse, invece di fare propaganda alla presentazione della fondazione che porta il nome di una ragazza uccisa da un ragazzo bianco, italiano e “per bene”, forse non continuerebbero a morire centinaia di donne nel nostro Paese ogni anno». Sembra quasi che per un anno la famiglia Cecchettin abbia sprecato fiato.
Sul patriarcato, poi, se è vero, come ha ricordato Valditara, che sulla carta la riforma del diritto di famiglia del 1975 ha riconosciuto alla donna una condizione paritaria, guardare solo al significato giuridico del termine è quantomeno limitante. A testimoniarlo è l’intervento di Anna Fasano, presidente di Banca Etica: «Il 37 per cento delle donne in Italia non possiede un conto corrente. Il 47 per cento non ha un’autonomia finanziaria, di queste il 49 per cento denuncia di essere soggetta a violenza economica». Di fronte a queste cifre, diventa davvero difficile sostenere che il sistema patriarcale appartiene solo al passato. Anche sul tema che più dovrebbe essergli familiare, quello dell’istruzione, il ministro ha trovato un valido contraddittorio in una delle relatrici scelte dalla Fondazione. «Abbiamo inserito il contrasto alla violenza contro le donne nell’ambito dell’educazione civica e al rispetto verso ogni persona», ha detto Valditara. Una soluzione che non sembra affrontare la questione alla radice. Lo sostiene Irene Biemmi, docente di Pedagogia di genere all’Università di Firenze: «Le differenze di genere sono dei costrutti sociali, non hanno niente a che fare con la natura e la biologia, ma fin dai primi anni di vita determinano squilibri di potere. Senza una formazione adeguata alle educatrici e agli educatori, il rischio è di trasmettere gli stessi stereotipi sessisti con cui siamo cresciuti». Un’altra grave inadempienza riguarda i libri di testo: «Dai testi di scuola primaria emerge una società patriarcale in cui gli uomini hanno il potere economico e le donne hanno un ruolo subalterno. Un messaggio istituzionalizzato dalla scuola».
In uno degli interventi conclusivi della conferenza, Stefano Ciccone, presidente dell’Associazione “Maschile Plurale”, ha raccontato il solco che i Cecchettin hanno creato tra chi vede nella violenza maschile contro le donne un problema sistemico e chi, spesso tra istituzioni e media, preferisce affrontarla attraverso la repressione: «Abbiamo visto una famiglia che ha scelto di non stare nel mero ruolo della vittima. Si sono presi la responsabilità di denunciare le radici della tragedia che li aveva colpiti. È un gesto di rottura con la cultura dominante, che a molti ha dato fastidio».
Spesso patriarcato e cultura dello stupro vengono rappresentati come il vertice di una piramide che ha alla base pensieri sessisti, stereotipi e altri piccoli fallimenti quotidiani dai quali nessuno può credersi assolto. La famiglia Cecchettin ha preso a picconate le fondamenta di questo colosso. A poco a poco crollerà e crollando farà sempre più rumore, con buona pace di presidi e ministri.