Processi a rilento, denunce inascoltate, tentativi di ridurre le violenze a dissidi coniugali. E poi l’affido dei figli, in presenza di un genitore violento. Quando la giustizia mostra la corda

Quattro anni senza processo: è questa, come ha evidenziato quest’estate la vicenda che ha opposto Angelica Schiatti a Morgan, la giustizia che attende le donne che denunciano. Non esattamente la corsia preferenziale che prevederebbe il Codice Rosso. E in mezzo bisogna vivere. Lo sa bene Anna quando parla di uno stato d’ansia costante, di senso di colpa, di sensazione d’impotenza a fronte di tribunali e forze dell’ordine che oscillano tra bonari consigli a ricomporre l’insanabile o a procedere per conto proprio. Lei è uscita da una relazione violenta ma non dal ginepraio che ne è seguito. Dopo aver attraversato l’inferno, ha deciso di lasciare il compagno violento, anche e soprattutto per proteggere le proprie figlie. Ma non è stata creduta. Succede spesso nelle aule di giustizia italiane, piene di pregiudizi invisibili che orientano le sentenze, come ha spiegato nel libro “La mia parola contro la sua” la magistrata Paola Di Nicola. Ad Anna non sono bastate sette denunce per stalking, persecuzione, violenze per convincere gli investigatori che non era «pazza, illusionaria e aggressiva» e avere una risposta diversa da «Signora, fate pace». E il suo racconto non è stato sufficiente per verificare se ci sono ancora le condizioni per mantenere un affido condiviso dei figli. Con il suo ex compagno, dipendente delle forze dell’ordine, le cose hanno iniziato ad andare male dopo il parto e dopo l’acquisto di una casa intestata a lui per fruire dell’accesso ai contributi, una proprietà per la quale lei è garante del mutuo: «Durante la gravidanza era l’uomo perfetto. Poi un giorno, dopo che io ho manifestato un certo fastidio per la presenza ingombrante della sua famiglia nei giorni successivi alla nascita della figlia, mi ha sbattuta contro il muro, mi ha detto che non dovevo permettermi di lamentarmi e ha iniziato a denigrarmi. Poi riprendeva a comportarsi bene ma intanto le reazioni violente si sono infittite come i comportamenti inaffidabili – ubriacarsi spesso e anche alla festa di compleanno delle figlie, lasciarle sole di notte, perseguitare la mia figlia più grande, nata da una precedente relazione o gli espedienti per farmi apparire una madre inadeguata. Adesso quello che mi consuma è la paura di quello che potrebbe accadere quando le bambine sono con lui».

 

I dati confermano che non si tratta di un caso limite. Un’indagine del Centro antiviolenza Goap di Trieste, pur su un campione ristretto a poco meno di 300 casi conferma quanto siano tortuosi i percorsi giudiziari: tra le donne che hanno querelato e/o per le quali si è aperto un procedimento d’ufficio (circa il 55% del campione), solo una minoranza (30%) ha ottenuto un provvedimento di tutela e raramente con la dovuta urgenza; solo nel 31% dei casi il maltrattante è stato condannato, nel 36,6% dei casi c’è stata un’archiviazione e nel 15% dei casi una remissione della querela da parte della donna.

 

Per quanto riguarda invece la tutela dei figli è molto frequente l’affidamento condiviso tra genitori (72%) anche in presenza di querele, indagini o addirittura condanne per violenza contro la partner, mentre sono rari (20% dei casi) i provvedimenti che fanno decadere la responsabilità genitoriale del padre. Il risultato non cambia guardando all’indagine della Commissione femminicidio del Senato: tra i 2.089 procedimenti di separazioni con figli minori esaminati, 603 mostravano prove di violenza, ma solo nel 15% dei casi i giudici avevano agito sul genitore violento. Sulla sottovalutazione delle denunce delle donne Antonio De Nicolo, procuratore della Repubblica di Trieste fino allo scorso 17 giugno frena: «Nella mia lunga esperienza giudiziaria (43 anni) ho imparato che, laddove il giudice debba regolare conflitti in cui si avviluppano sentimenti ed affetti, la soluzione finale non dipende quasi mai dalla pura applicazione del diritto. Accade non di rado che la persona offesa ridimensioni in seguito le proprie accuse, affermi di voler tornare a vivere con l’imputato o di esservi già tornata, chieda di poter ritirare la denuncia. Se per la statistica giudiziaria – chiarisce De Nicolo – questi casi sono definiti come assoluzioni o remissioni delle querele, questo non significa affatto che i giudici non abbiano dato adeguato ascolto alla vittima. Inoltre va puntualizzato che attualmente oltre il 55% dei magistrati in servizio sono donne: l’ipotesi di un atteggiamento patriarcale o paternalistico non regge». Il magistrato sottolinea che non solo «le norme vigenti impongono termini ridottissimi per l’audizione della parte lesa, e termini brevi per la valutazione della necessità di un provvedimento cautelare» ma anche «vari controlli sul rispetto di questi termini».

 

Sulle conseguenze che riguardano la gestione dei figli le competenze si sovrappongono. «La legge – spiega De Nicolo – prevede un raccordo fra i magistrati che devono decidere sulle questioni civilistiche, come l’affidamento dei figli, e quelli a cui è affidato il relativo procedimento penale. Il sistema – aggiunge – è orientato alla tutela delle vittime, pur – ammette – con un approccio formale e burocratico, forse inevitabile». Se per il magistrato «pochi casi concreti gestiti in modo inadeguato non costituiscono un paradigma di disfunzioni generalizzate», tuttavia accade che anche nelle aule essere donna abbia un costo altissimo. Spesso il costo della vita.