Disagio psichico
Psichedelici come terapia Avanti, piano
Tornano, attualizzati, studi sull’uso di Lsd e Mdma per curare disturbi ossessivo- compulsivi, e dipendenze. Negli Usa si è arrivati a un passo dal sì della Fda
Prima che per decenni le ricerche scientifiche sugli psichedelici venissero stroncate, c’è stato un momento a fine anni Cinquanta nel quale il governo della remota provincia canadese del Saskatchewan studiava come rendere disponibile a tutti i cittadini il trattamento della dipendenza da alcol con l’Lsd. É stato, appunto, prima della messa al bando di queste sostanze un po’ ovunque, in Nord America così come in Europa. Negli ultimi anni c’è stata una riscoperta culturale, sociale e scientifica di psichedelici e affini, come l’Mdma e la ketamina. Si sta di nuovo cercando di capire come usarle per aiutare chi convive con disturbi ossessivo-compulsivi, depressioni, traumi, dipendenze. Al momento sono oltre 1.600 gli studi scientifici pubblicati sugli aspetti clinici dell’uso degli psichedelici. In Italia il rinascimento psichedelico è arrivato principalmente a livello culturale, sono stati pubblicati o ripubblicati libri, diffusi podcast, organizzati incontri. Nessun trial clinico è stato ancora realizzato, anche per le regole molto stringenti sull’uso di tali sostanze proibite. Il mese scorso, per la prima volta, però, il nostro Paese ha ospitato un congresso scientifico sugli psichedelici interamente dedicato a questioni di tipo clinico, dal titolo Emerging therapies in psychedelic science. Ricercatori italiani e stranieri ma anche esperti di politiche pubbliche e rappresentanti dell’Agenzia europea del farmaco, l’Ema, si sono riuniti a Rovereto per confrontarsi sullo stato dell’arte degli studi su Lsd e simili. «Il focus di qusto simposio è stata la ricerca clinica con le sostanze psichedeliche, che deve essere ben distinta dal loro uso ricreazionale», rimarca Ornella Corazza, professoressa ordinaria in materia di dipendenze all’Università di Trento, dove dirige anche il nuovo Addiction Science Lab. Corazza è stata una delle principali voci del congresso, organizzato anche a partire dall’apertura mostrata sul tema da parte dei suoi studenti di psicologia clinica. «Ho visto un grande interesse da parte dei miei studenti in tema di psichedelici – spiega la docente – ma mi sono resa conto che in Italia c’è veramente poco da offrire in termini di ricerca e di tirocini nel campo». L’incontro di Rovereto è stato coordinato, tra gli altri, anche da Maps Italia, associazione multidisciplinare che promuove lo studio degli psichedelici, da poco nata sul modello dell’omonima americana. Quando di parla dell’utilizzo di psichedelici e simili per trattare i disturbi di salute mentale, non bisogna quasi mai figurarsi un blister di pillole di psilocibina da assumere da soli come se fosse uno psicofarmaco comune: si parla sempre di psicoterapia assistita dalla sostanza. Di tutti gli studi clinici in corso di questo tipo, quello che si è avvicinato di più al traguardo dell’autorizzazione da parte di un ente regolatore dei farmaci è stato proprio quello promosso negli Stati Uniti da Maps per il trattamento del disturbo post-traumatico da stress con la psicoterapia assistita dall’assunzione di Mdma. Il trial aveva completato tutte le fasi, mancava solo l’approvazione da parte della Food and Drug Administration (Fda), che però ad agosto scorso è stata negata. Le motivazioni del rifiuto riguardano alcune caratteristiche degli studi clinici. Inoltre, metanalisi recenti hanno evidenziato delle criticità nelle diverse ricerche su queste sostanze. Sebbene al pubblico – che si sta abituando a un certo entusiasmo psichedelico – queste possano sembrare delle battute di arresto, Corazza sottolinea che per la ricerca scientifica sono invece opportunità importanti per migliorare la conoscenza di come condurre appropriatamente questi studi. «Stiamo imparando dove sono le lacune e che cosa possiamo fare meglio», spiega. «Per esempio, la psicoterapia che accompagna la somministrazione di queste sostanze è molto importante e va ben strutturata. Servono degli standard internazionali per la comparazione dei risultati». Un grosso problema da affrontare è anche quello del blinding, cioè del come costruire uno studio sulla psicoterapia assistita da composti che danno effetti allucinogeni o dissociativi quando il gruppo di controllo che non assume la sostanza ma solo un placebo si rende perfettamente conto di non avere percezioni alterate. La questione delle esperienze, a volte anche mistiche, causate dall’assunzione dello psichedelico è complessa e interessante per chi fa scienza. «Noi ricercatori – dice Corazza – dobbiamo sviluppare dei metodi validati per analizzare queste esperienze, soprattutto da un punto di vista soggettivo, in quanto presentano un significato clinico legato al vissuto della persona che non va sottovalutato». Ci sono davanti molti ostacoli, e uno evidente è che con i legislatori di oggi – a differenza dei quanto avveniva nel Saskatchewan di fine anni Cinquanta – il dialogo è ancora da aprire. Se questo è comunque un tema complesso in Paesi dove già sono in corso studi simili, in Italia dove l’atteggiamento dei governi è ancora decisamente proibizionista, la strada è tutta in salita. «La cosa più importante, ripeto, è dividere l’uso degli psichedelici per la terapia a livello clinico e il loro a livello ricreazionale, che è completamente un’altra questione», conclude Corazza. In altre parole, far capire al legislatore quando è il caso di aprire a ricerche scientifiche condotte con standard qualitativi elevati e condivisi. L’obiettivo finale è cercare una nuova strada per migliorare la salute mentale e fisica dei cittadini.