Risiko delle banche
Senza unione Europa condannata
La frammentazione del mercato finanziario è all’origine della debolezza degli istituti del Vecchio Continente. Ma la politica si oppone alle fusioni invece di favorirle
È una corsa contro il tempo: l’Unione Bancaria Europea e il perfezionamento del mercato comune dei capitali, «sono più urgenti che mai», ha arringato con inusuale veemenza la presidente della Bce, Christine Lagarde, di fronte all’European Banking Congress di Francoforte a fine novembre. L’unione finanziaria serve per rispondere alla sfida dell’incombente Trump, difendersi dalla competizione cinese, dare una scossa alla produttività, innalzare i livelli di reddito, insomma per attuare quello che i rapporti di Mario Draghi ed Enrico Letta raccomandano e Ursula von der Leyen ha posto come base programmatica della nuova Commissione: il salto di qualità dell’Ue. Un effetto dell’unione finanziaria sarebbe quello di smussare le polemiche sulle fusioni bancarie che arroventano ogni operazione nel settore. Se ci fosse l’unione dei mercati sarebbe tutto meno drammatico, e perderebbero di senso le piccole zuffe di quartiere o pretese di partito perché si comincerebbe a ragionare su scala europea e molto più in grande: «Le banche devono abbandonare la prassi di sottomettere le loro proposte al vaglio preventivo di governi e autorità nazionali», taglia corto Andrea Enria, già capo della vigilanza Bce. «Le iniziative vanno portate all’attenzione delle autorità europee, che ne faranno un’analisi con quelle nazionali, comunicando i risultati con una sola voce. L’ultima parola deve spettare agli azionisti, che per la maggior parte delle banche non sono più in prevalenza investitori del Paese in cui hanno la sede principale». Il riferimento è sia a operazioni transfrontaliere come Unicredit-Commerzbank sia a proposte “interne” come Unicredit-Bpm, dove azionisti di maggioranza relativa sono il fondo americano Blackrock e i francesi di Credit Agricole. Altro che golden power o altre interferenze che creano solo confusione: qualsiasi acquisizione nel settore finanziario deve essere ricondotta a livello europeo, dopodiché se le regole sono rispettate i consigli d’amministrazione decidono.
Le fusioni sono necessarie, dice il Rapporto Draghi, per risolvere il gap dimensionale. La maggior banca europea è lo spagnolo Santander, che capitalizza 69 miliardi di euro, dieci volte meno della maggiore americana, la Jp Morgan Chase che arriva a 702 miliardi di dollari. La Wells Fargo capitalizza 259 miliardi, Citigroup 133. Fuori Usa e Ue ci sono l’inglese Hsbc (157 miliardi) e la svizzera Ubs (105,7). Le dimensioni contano perché permettono economie di scala, disponibilità di grandi capitali, potere di mercato. Se Unicredit (60 miliardi di capitalizzazione) riuscisse a rilevare Bpm (9 miliardi) supererebbe di un’incollatura Intesa e raggiungerebbe Santander. Ma scendendo nella classifica, la maggior parte degli istituti italiani sono in zona retrocessione: Mediolanum capitalizza 8,25 miliardi, Bper 7, Mps 6,1, Popolare di Sondrio 3,1. Si comprende l’importanza di inserirsi in un contesto europeo. La svolta copernicana dell’unione dei capitali avrebbe altri vantaggi. Lagarde ha ricordato che c’è una massa di 11.500 miliardi di euro «fermi in depositi a basso rischio e basso rendimento che vanno mobilitati per investimenti coraggiosi e innovativi». È un terzo delle attività finanziarie delle famiglie: i risparmi “dormienti” in America sono un decimo. E negli Usa si risparmia meno: l’8 per cento dei redditi contro il 13 per cento. I risparmi non arrivano all’economia dell’eurozona per la frammentazione dell’economia stessa che disorienta, induce alla prudenza nell’investimento e porta ad affidare i soldi a fondi anglosassoni. «Il 45 per cento degli europei - è l’accusa della presidente della Bce - non si fida degli intermediari europei, per di più le commissioni applicate sugli investimenti sono del 60 per cento più alte che in America. Il divario nello sviluppo peggiora, l’unica via di recupero è l’unione del mercato dei capitali». Si crea un mercato alternativo a quello americano a vantaggio della crescita nell’eurozona, allo zero virgola ormai anche in Francia e Germania: migliorando i rapporti debiti/Pil il quadro si rasserena.
La frammentazione europea stride con l’imponente massa finanziaria che potrebbe essere a disposizione dell’innovazione, dello sviluppo, della crescita e delle trasformazioni cui è chiamata l’Europa: tecnologia, ambiente, difesa. «Bisogna canalizzare il risparmio verso il private equity, il venture capital, le banche d’investimento che investono nelle startup e in generale nell’innovazione che crea ricchezza, e hanno meno vincoli di bilancio delle banche commerciali che necessariamente devono contenere i rischi per tutelare i risparmiatori», spiega Giampaolo Galli, economista della Cattolica. Con strumenti adeguati si può anche utilizzare al meglio il surplus di bilancia dei pagamenti dell’Europa nei confronti dell’America: «Negli ultimi 12 mesi ha raggiunto i 500 miliardi di euro», scrive Martin Sandbu, editorialista del Financial Times. «È la risposta alla domanda di Draghi: dove prendere le risorse per gli investimenti necessari al salto di qualità all’Ue (800 miliardi l’anno)? I capitali necessari dovranno essere per lo più privati visto che non è pensabile sottrarre fondi alle esigenze dei bilanci statali, dal welfare all’istruzione». Il collante che manca all’unione bancaria è la fiducia: «Non è facile infrangere il muro di resistenza della Germania al momento di creare vere banche europee», spiega Brunello Rosa, docente alla London School of Economics. «Il “fronte Nord” non se la sente di garantire per i risparmiatori del “fronte Sud”: creare un sistema di assicurazione comune contro le insolvenze, perno della prospettata unione, è difficile. Neanche se dovesse sbloccarsi la partita del Mes, che ha tra le altre funzioni quella di “backstop” per il fondo di risoluzione bancario (un ulteriore finanziamento, ndr) in caso di fallimenti: sarebbe un altro tassello dell’unione ma non garantirebbe il risultato finale».
Eppure, riflette Gianfranco Torriero, vicedirettore generale dell’Abi, di passi avanti ne sono stati fatti: «Abbiamo ormai da dieci anni nell’eurosistema una vigilanza unica bancaria che funziona bene, con sistematici stress test predisposti dall’Eba (European Banking Association) e tutte le verifiche della stessa Bce. Sono operativi anche i fondi interbancari di garanzia nazionali che tutelano i depositi fino a 100mila euro, pienamente collaudati. Per superare le difficoltà a completare un sistema unico europeo di garanzia, un’ipotesi è realizzare un network di questi fondi che darebbe un’importante spinta unitaria, una soluzione che potremmo definire “light”». L’embrione dell’auspicata unione sono le 120 maggiori banche dell’eurozona sotto il controllo diretto della Bce. «Ogni operazione di rilievo quali fusioni e acquisizioni dev’essere autorizzata da Francoforte se almeno una delle due banche è vigilata da Francoforte», precisa Angelo Baglioni, economista della Cattolica e direttore della rivista Osservatorio Monetario. «Le banche minori restano sotto la supervisione delle autorità nazionali ma la Bce può decidere di intervenire ogni volta che ne rileva la necessità». Fra gli istituti vigilati dall’Eurotower quelli italiani sono 11: oltre a Unicredit e Intesa, ci sono la stessa Bpm e poi Mediolanum, Mps, Banco Popolare, Mediobanca, Bper, Fineco, Popolari di Sondrio e Vicenza. Valgono parametri come il valore degli attivi, l’importanza in relazione all’economia del Paese, la presenza internazionale, l’aver ricevuto aiuti europei. «Insomma, siamo veramente a un passo dall’unione», insiste Baglioni. L’ultimo miglio è come sempre il più duro.