Le associazioni del settore protestano. «In occasione di eventi come Pesaro Capitale della Cultura, invece di dare lavoro ai professionisti, si ricorre solo a chi lo fa gratis»

Sullo sfondo di colore acido della pagina web di Pesaro Capitale della Cultura 2024, una grande scritta nera annuncia la campagna di reclutamento di volontari. “VolontarxPs24” punta sull’inclusività linguistica e chiama a raccolta i cittadini e le cittadine di «età compresa tra i 16 e i 99 anni».

 

Vivere un’esperienza di volontariato in ambito culturale, si legge sulla Carta del Codice etico, «offre alle persone l’opportunità di partecipare alla vita della propria comunità da un punto di osservazione privilegiato, incrementando il bagaglio personale di competenze e valori». Tutto questo, si assicura, «senza sovrapposizioni o sconfinamenti in ambiti di pertinenza di figure di altro genere, quali lavoratori e professionisti». Proprio questi ultimi, però, non sono convinti da tale rassicurazione e hanno indirizzato una lettera aperta al ministero della Cultura e al Comune di Pesaro per chiedere che l’uso del volontariato nell’ambito delle attività legate alla Capitale della Cultura venga regolamentato.

 

Giulia, attivista marchigiana di MiRiconosci?, associazione di rappresentanza del settore culturale, specifica a L’Espresso l’origine dei timori di lavoratori e lavoratrici. «Fin da Matera Capitale della Cultura europea nel 2019 è stato normalizzato l’uso privilegiato di volontari per gestire le attività dell’evento, a scapito dei posti di lavoro. Questo modello, che viene fatto passare come virtuoso, è stato riproposto per Parma, per Bergamo-Brescia e adesso per Pesaro».

 

Nessuna risposta è arrivata fino a questo momento da parte dei destinatari della lettera aperta, ma gli attivisti e le attiviste non sono particolarmente sorpresi. Il dialogo con le istituzioni sul tema è sempre molto difficile. Lo dimostra anche il recente caso di Parma, criticata da più parti per la campagna di reclutamento volontari “Io amo”. In uno dei manifesti più discussi campeggiava il primo piano di un giovane in maglietta gialla e una grande scritta: «Io amo i privilegi».

 

Il livello comunicativo non è secondario, la narrazione che viene fatta del lavoro culturale durante manifestazioni importanti come le Capitali della Cultura si diffonde nell’immaginario comune. In questo senso, dicono attivisti e attiviste, Pesaro 2024 potrebbe diventare il luogo e il tempo «per parlare anche di cultura del lavoro». A chi vede accostata la propria professionalità a un privilegio o a un passatempo, le istituzioni rispondono sempre che il volontariato può coesistere con il lavoro e che donare il tempo per il benessere collettivo è un modo virtuoso di impiegare sé stessi.

 

«Da parte istituzionale riceviamo poco ascolto. È molto facile rigirare la frittata giocando sul fatto che il volontariato crea cittadinanza attiva». Federica P., che per MiRiconosci? si occupa del tema, riassume molte esperienze di interlocuzione in un’amara considerazione. «Noi passiamo sempre per quelli che non comprendono il valore del volontariato, quando nessuno lo mette in discussione. Il problema si pone quando questo sostituisce una professionalità, perché a quel punto diventa un elemento che produce un disagio sociale». L’uso del volontariato nel settore culturale, infatti, è diffuso oltre i grandi eventi e incide sul mercato occupazionale traducendosi in svalutazione delle professionalità e lavoro sottopagato. Non è raro che per garantire le aperture di musei, siti archeologici, biblioteche si ricorra al reclutamento di volontari per sopperire alla mancanza di addetti.

 

«Fissare i numeri che rendano la portata del fenomeno è molto difficile, ma la frequenza con cui escono bandi per posizioni di lavoro qualificato da svolgersi a titolo gratuito o con rimborsi spesa è inquietante». Uno degli ultimi casi emersi, ricorda Federica P., è quello del Comune di Anzio, nel Lazio, che per garantire l’apertura e la valorizzazione del Museo Civico Archeologico e della Villa imperiale ha indetto un bando aperto alle associazioni di volontariato i cui membri dovranno svolgere ruoli di accoglienza del pubblico, custodia e apertura dei siti, diffusione di iniziative culturali, interventi di piccola manutenzione, accompagnamento di gruppi e di gite scolastiche. Una convenzione di due anni per cui è prevista l’erogazione di un contributo di diecimila euro annui. «Il nostro lavoro, la nostra professionalità sono spesso visti come un ostacolo da aggirare con l’obiettivo del risparmio. Quello di Anzio è solo un esempio di ciò che succede quotidianamente».

 

A sancire la possibilità di stipulare convenzioni con organizzazioni di volontariato per assicurare l’apertura quotidiana di musei, biblioteche e archivi di Stato è la legge Ronchey del 1993. In diverse occasioni le associazioni hanno ribadito l’urgenza del suo superamento: durante un ciclo di audizioni che si era tenuto in Senato nel 2019 e in occasione di un tavolo ministeriale che la Direzione Musei aveva organizzato nel 2021. In questi contesti si è arrivati a un parziale riconoscimento del problema da parte di istituzioni e sindacati, ma niente si è mosso davvero per il momento. Nel frattempo, l’occupazione nel settore cresce lentamente e in modo insufficiente a coprire i bisogni di valorizzazione del ricchissimo patrimonio culturale italiano e lavoratori e lavoratrici continuano a fare i conti con le difficoltà di una professione sempre più precarizzata e svalutata.